domenica 1 gennaio 2012

Massimo Raffaeli




 
 Cesena, 2008 (album g. z.)




Benzoni e un gol di Jugovic

Forse conosco meglio la poesia di Benzoni (che ho subito prediletto, fin da La casa sul porto, nel collettivo di Guanda, 1980) di quanto non abbia conosciuto la persona di Ferruccio. A un’ora di treno l’uno dall’altro, ci siamo veduti solo intorno al ’92. Cartoline postali (eleganti le sue, d’una grafia minuta), manoscritti e plaquettes facevano da tramite e ritardavano, come nel paradosso freudiano, la impellenza di un incontro. Poi per la complicità di amici (Francesco Scarabicchi e Gabriele Zani, in un chiasmo affettuoso) ci siamo visti cinque o sei volte a Cesenatico, a casa sua con Ilse. Ricordo anche una sua venuta dalle mie parti, a Jesi, per una lettura pubblica: era teso e molto concentrato, quasi temendo gli sfuggisse il verso, che lui accentuava, però senza enfatizzarlo. La sera, all’osteria, bevve un’acqua minerale francese e disse che era quasi (ridendo sul quasi) come lo champagne.
Era un ragazzo disponibile, generoso, che mascherava un fondo di tangibile cupezza prodigando ironia e penetranti jeux de mots. Intransigente con gli amici, o meglio per gli amici, li difendeva sempre e, se poeti (penso a Sereni, ma anche a Fortini, Raboni, Bandini), li amava di un amore assoluto e persino fazioso: né ho mai visto nessun altro custodirne il ricordo, le carte, le foto, con tanta gelosa devozione.
Non parlava volentieri di poesia. Preferiva indugiare sugli amori che lo avevano incendiato da ragazzo, la politica, il cinema, il gioco del calcio. Teneva per la Juventus, e il suo tifo era ancora più accanito del mio. La notte di giugno del ’96, quando la Juve vinse a Roma la Coppa dei Campioni contro l’Ajax di Amsterdam, fu Vladimir Jugovic a battere il rigore decisivo, producendosi poi in una capriola liberatoria. (Non so se ora o allora, mi vengono in mente i versi di Saba, teneri e lievitanti “...la sua gioia si fa una capriola, si fa baci che manda di lontano...”, i versi di Goal). Squilla il telefono, è Ferruccio che urla, straparla, forse compone mentalmente rime epiche per l’ex sergente della Stella Rossa, da una cabina di Cesenatico, che immagino in delirio. Mi dice cose che si dicono a uno sconosciuto, o a un fratello.
Quella è l’ultima volta che ci siamo parlati.




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“Confini”, n. 4, 2000. Poi in Compito di italiano. Ricordi e letteratura, affinità elettive, Ancona 2007.