domenica 1 gennaio 2012

Federico Zeri





Faccia posteriore di specchio celtico in bronzo trovato nel sepolcro di Sutton Hoo. British Museum, Londra.



Seconda conversazione

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   Tornando al tesoro di Sutton Hoo e ai tesori affini, ho già detto che accanto a oggetti minori se ne sono trovati di ben altra levatura estetica. Eccone uno eccezionale: è uno specchio eseguito con una faccia liscia, di metallo naturalmente, che rifletteva e in cui la persona poteva specchiarsi, e con il retro decorato, come gli specchi etruschi. Gli specchi etruschi erano decorati a graffiti, con figure di derivazione ellenica. Questo specchio, invece, di cultura celtica, è coperto da un motivo astratto di eccezionale sostenutezza formale, di qualità superba. È inutile che io stia a rilevare la perfetta coerenza stilistica di ogni minimo particolare; tutto è costruito con la medesima sostanza fantastica e con lo stesso rigore formale. A prima vista, il motivo che decora questo specchio può apparire un ghirigoro e basta; ma in realtà è sostenuto da precedenti culturali estremamente complessi. Il risultato finale è quella finta semplicità, tipica dei grandi capolavori.
   Quando un’opera d’arte esce dalla norma e si avvicina all’assoluto accade che possa fare l’effetto di qualcosa di semplificato, perfino di rozzo. È quello che molti incompetenti non riescono a capire, per esempio, nei disegni di Raffaello che, a prima vista, possono sembrare semplicemente degli schizzi gettati sulla carta senza un’adeguata preparazione. In realtà, si tratta della finta semplicità, della finta povertà di ciò che è estremamente elaborato. È quello che accade anche per certa musica di Verdi che a chi non è ben preparato all’ascolto può fare l’effetto della canzonetta popolare. Persino certi versi di Dante possono fare questo effetto.
   Questa, naturalmente, è la reazione delle persone non preparate; ma è anche la reazione di molti intellettuali di professione, molti critici di professione, i quali preferiscono le cose oscure. Esiste, infatti, ai nostri giorni una certa sottocultura, che preferisce alla semplicità ciò che è involuto, oscuro, ciò che ha bisogno dell’esegeta di professione. Quel che viene compreso dalle masse irrita questi intellettuali, che vivono proprio dell’ignoranza del pubblico e dell’oscurità dei testi, perché finisce col togliere loro il lavoro.
   Di questo specchio, dunque, bisogna sottolineare di nuovo la straordinaria coerenza formale. È stato eseguito probabilmente intorno agli anni quaranta-cinquanta della nostra era, e non è escluso che sia di manifattura irlandese, e che sia capitato in Britannia per ragioni che a noi sfuggono. Quest’oggetto è uno dei più significativi e perfetti rimasti dalla cultura celtica che, come si è già detto, non era limitata soltanto alle Isole Britanniche, ma occupava quasi tutto il territorio dell’odierna Francia, gran parte del Belgio e scendeva fino a toccare l’area ceca, quella che è l’attuale Boemia. Comprendeva anche la Slovenia e, per quello che riguarda l’Italia, occupava tutta la valle del Po tra le Alpi e gli Appennini.
   Sarebbe interessante sapere come si esprimessero queste popolazioni celtiche, quale fosse il loro linguaggio, quale fosse la loro musica; ma purtroppo a questo riguardo non sappiamo assolutamente nulla. Non abbiamo iscrizioni celtiche o libri celtici. Abbiamo dei canti molto più tardi, che ci vengono dall’Irlanda, ma che non possono essere presi come esempio. Le poche notizie che abbiamo sulla società celtica sono notizie che provengono quasi tutte da fonte romana, da Giulio Cesare, una fonte molto interessata, tendenziosa, che vanno quindi prese cum grano salis.
   D’altronde, è il caso qui di ripetere che sono esistite culture alle quali era estranea l’espressione figurativa, ma che si sono manifestate in altri modi: fra questi la cucina, la preparazione dei cibi, può avere un ruolo primario. A volte può essere significativa la sola ricetta di un cibo. Ma la preparazione dei dolci, come accadde nell’Italia barocca, ha costituito un fatto artistico di prim’ordine.
   Sappiamo da fonti, e anche da incisioni, che grandi artisti, come Gian Lorenzo Bernini, si sono dedicati alla fattura di dolci monumentali per l’aristocrazia romana. Queste opere erano fatte in gelatina, in panna montata, in creme di vario colore e solidità. Tali produzioni dovevano essere estremamente libere, capricciose, perché è molto più facile modellare in gelatina che non in creta o, addirittura, in marmo. Nella preparazione dei dolci manca quella ostilità quella refrattarietà di una materia come il marmo, per esempio, che appunto impedisce di esprimersi con la fantasia sbrigliata con cui si possono produrre opere effimere.
   Non vorrei arrivare, adesso, al paradosso di esaltare una produzione tutto sommato marginale a scapito di quella che era la produzione principale. Né vorrei cadere nel ridicolo di chi cita opere effimere come se fossero sullo stesso piano delle opere monumentali, come è accaduto, per esempio, a uno degli estensori dell’Enciclopedia Italiana Treccani che, sotto la voce Michelangelo, fra le opere perdute del sommo artista cita una statua di neve fatta per gioco quando era un ragazzo.
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Da Dietro l’immagine. Conversazioni sull’arte di leggere l’arte, TEA, ristampa 2001, pp. 45, 48-49.