domenica 1 gennaio 2012

Giovanni Raboni




   Perché, secondo lei, ci sono così pochi critici di poesia e questi pochi quasi tutti poeti?

   Quella del critico-poeta è una figura che ha una lunga tradizione, soprattutto nel Novecento e non soltanto in Italia. A colpire in questi anni non è tanto il fatto che siano aumentati i critici-poeti, quanto il fatto che siano diminuiti o quasi scomparsi i critici non poeti. Chi ha preso o prenderà il posto dei Gargiulo, dei De Robertis, dei Debenedetti, dei Bo, dei Macrì, dei Contini, cioè dei grandi critici, accademici o no, ma in ogni caso anche militanti, il cui lavoro ha accompagnato e non di rado guidato il lavoro dei poeti italiani fino, direi, alla cosiddetta terza generazione? A me sembra, francamente, di non vedere nessuna figura del genere, né fra i poeti né fra i non poeti; ma ancora meno, appunto, fra i non poeti. Per quanto riguarda, in particolare, i critici dell’àmbito universitario, mi pare che – con pochissime eccezioni, per esempio Mengaldo – tendano a rifiutare, non so se per prudenza o per complesso di superiorità o, più semplicemente, per incapacità, il ruolo del critico militante, che pure (come dimostra l’elenco sommario che ho appena fatto) i grandi critici degli anni Trenta e Quaranta hanno saputo splendidamente conciliare con il ruolo del saggista. Insomma, il panorama è abbastanza desolante, e non mi sento di escludere, purtroppo, che l’assenza di un serio discorso critico possa danneggiare, alla lunga, anche il farsi del discorso poetico.


   Che cosa pensa dello spazio che quotidiani, settimanali e in genere i mass media riservano alla poesia?

   Ne penso tutto il male possibile. Il più delle volte, quando i giornali (oppure la radio, la televisione) decidono di occuparsi di poesia, mi viene da pensare: meglio se non lo facevano, meglio che non se ne occupino affatto. Non c’è né competenza né buona volontà, né onestà né cultura. Quelli che sanno, di solito non parlano (è, per fare un esempio clamoroso, il caso di Alfredo Giuliani, critico letterario di “Repubblica”, che da anni evita accuratamente di parlare di libri di poeti contemporanei); quelli che parlano, di solito, non sanno niente o, nella migliore delle ipotesi, fanno finta di non sapere. Per quanto mi riguarda personalmente, mi sono un po’ stancato: quando propongo ai miei “datori di lavoro”, cioè ai responsabili e gestori delle pagine alle quali collaboro, di occuparmi di un libro di poesia, mi sembra di chiedergli un favore, se non addirittura un’elemosina. Vorrebbero che parlassi sempre e soltanto di Celentano e di Arbore oppure, che ne so, dei romanzi di Busi, cioè delle cose di cui tutti parlano (e di cui, secondo me, sarebbe meglio non parlare affatto). Ecco, questo è il punto: si parla solo di ciò di cui già si sta parlando; e siccome di poesia, in pratica, non parla nessuno, tutti continuano a non parlarne. La “politica” dei supplementi libri, degli inserti libri, delle pagine libri dei grandi quotidiani e quella dei settimanali d’opinione si può ridurre a questo elementare programma: occuparsi delle cose di cui tutti si occupano. Mai che gli venga in mente che le cose, le idee si possono anche proporre...
   Ma, ripeto, la cosa più deprimente e più pericolosa non è tanto il silenzio sulla poesia, quanto il modo in cui il silenzio, di tanto in tanto, viene rotto. I “servizi” sulla poesia sono, in genere, tali da dissuadere i lettori dalla poesia. E la recensione di chissà quale libro fatta chissà come per fare un favore a chissà chi e infilata a caso in un punto qualsiasi della pagina o dell’inserto non è “meglio di niente”, è peggio, molto peggio di niente, perché disorienta, ingenera confusione, disinforma... Se chi dovrebbe decidere e scegliere non sa (e, in genere, non lo sa) quali sono i libri di cui bisogna parlare, va a finire che nessuno si occupa di Wallace Stevens o dell’edizione critica di Cavalcanti, mentre, magari, ci si occupa tempestivamente della plaquette del dilettante torinese (su “Tuttolibri”) o dell’esordiente amico dell’amico del vicedirettore o dello stesso recensore (da qualsiasi parte). E il lettore cosa dovrebbe pensare? che quell’esordiente è più importante di Stevens e di Cavalcanti?


   Pensa che si potrebbe fare qualcosa per migliorare questa situazione?

   Sì, credo che una soluzione ci sarebbe: bisognerebbe “inventare” dei critici di poesia (inventare nel senso di trovare, qualcuno ce n’è, basta cercarlo, e non necessariamente dei critici-poeti: penso a Mengaldo, a Baldacci, a Garboli) – inventare dei critici, dicevo, e affidare loro uno spazio preciso, garantito, magari un po’ solenne: una vera e propria rubrica di poesia, una piccola e non clandestina cattedra dalla quale, periodicamente, potessero dire la loro sui libri che escono (e magari, perché no?, anche su quelli che dovrebbero uscire e non escono), con piena responsabilità e autonomia. In questo modo i lettori interessati (che sono, potenzialmente, molto più numerosi di quelli che attualmente “si interessano”) avrebbero un punto di riferimento affidabile, credibile, un’informazione organica e non inquinata da altri spezzoni d’informazione casuale, non organica e non garantita. Insomma, bisogna ristabilire (so di dire una cosa poco popolare) un qualche principio d’autorità. In Italia escono, ogni anno, centinaia di libri di poesia: è indispensabile che i lettori trovino scritto da qualche parte – in modo, appunto, autorevole – quali sono fra essi i tre o i cinque o i dieci che vale la pena di comprare e leggere, e perché. Giornali come il “Corriere” e “La Stampa”, settimanali come “Panorama” o “Europeo” potrebbero benissimo, se volessero, assolvere questo compito; basterebbero sei, sette articoli in un anno (a patto, naturalmente, che nessun altro, nel frattempo, si occupasse in modo “selvaggio” di libri di poesia in quella stessa sede).
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Da una più lunga intervista di Antonella Romeo apparsa in “Poesia”, I, n. 3, marzo 1988.