Il mio curriculum scolastico si chiude con un diploma di Perito in Telecomunicazioni conseguito nel 1978 presso l’Istituto Tecnico Industriale di Cesena con un insperato quarantasei sessantesimi. Avevo allora 19 anni e nessuna voglia di continuare a studiare; dal momento poi che mio padre era arrivato alla Quinta Elementare e mia madre non aveva superato la Prima, potevano già ritenersi soddisfatti. A quei tempi, in effetti, per chi come me proveniva da famiglie contadine passate al proletariato, ossia per la maggioranza dei miei coetanei, un diploma simile rappresentava già il massimo delle aspettative. Non a caso, di tutti i miei compagni solo un paio avevano ambizioni universitarie, va da sé gli unici, se ben ricordo, che provenivano da famiglie benestanti.
Peraltro, devo a quell’attestato se dopo un anno come operaio in uno zincaturificio e alcuni mesi passati a verniciare infissi ho trovato il mestiere che faceva per me e che tuttora svolgo: magazziniere in un’azienda di materiale elettrico.
Del periodo scolastico ricordo con piacere le ore dei temi in classe e poco altro. Tant’è che all’esame di stato, tra quelli proposti nel 1978, scelsi il tema d’indirizzo letterario, che chiedeva di parlare di Ungaretti, Montale, Quasimodo.
Quindi, ho continuato a studiare per mio conto, finalmente senza scadenze, quell’unica materia, l’italiano, verso la quale mi sentivo davvero attratto fin dall’abbecedario: ovviamente di sera, nei giorni festivi, durante le ferie e nei ritagli di tempo. In una parola, sono stato quel che si suol definire, sbrigativamente, un autodidatta, poiché comunque non andrebbe dimenticato che quella dell’autodidatta, prima o dopo, diventa la condizione comune a tutti gli artisti, al di là del tempo “libero” di cui ognuno dispone. Come ben diceva Montale: «Non ci sono scorciatoie, né per la produzione né per l’appercezione dell’arte; non possono esistere né manuali né cattedre né corsi accelerati che permettano di apprendere ciò che si può imparare solo con la fatica di anni e col sussidio di una sicura vocazione».
Cominciai a scrivere “seriamente” intorno al 1982. In seguito chiesi soccorso al mio ex professore di Lettere, Dino Pieri, che mi fece il nome di due poeti del luogo: Ferruccio Benzoni di Cesenatico e il più maturo Renato Turci di Cesena. Così, nella primavera del 1983, con in mano le prime poesiole, conobbi Ferruccio; solo più tardi realizzai che non avrei potuto scegliere un momento peggiore per incontrarlo: era appena morto il suo grande amico Vittorio Sereni. Me le restituì dopo un paio di mesi senza alcun commento, o meglio, consigliandomi di leggere e leggere, specialmente un’antologia che in effetti si rivelò fondamentale per la mia formazione, Poeti italiani del Novecento di Pier Vincenzo Mengaldo: questa mi fece scoprire diversi autori di cui ignoravo l’esistenza, soprattutto mi colpirono Luciano Erba e Giorgio Orelli.
Dunque tornai sui miei passi e presi a frequentare Turci; l’anno seguente pubblicai a mie spese il libretto Monolocale, da lui puntualmente presentato e pervaso dalla generosa quanto discreta patina dei suoi insegnamenti. Il libretto non dispiacque a Erba, che da quel momento divenne il “supervisore” delle poesie successive, quasi tutte apparse nel 1990 in un opuscolo fuori commercio, I rimanenti, con la Postfazione di un felicemente ritrovato Ferruccio Benzoni. Dal 1990 a quel 1997 in cui Ferruccio morì, della nostra amicizia fatta di mille incontri, discussioni, letture scambievoli, ho già scritto e parlato in diverse occasioni. Con lui mi sono svezzato e sono cresciuto, non saprei dire se più artisticamente o più umanamente.
Comunque sia, chi meglio di lui avrebbe potuto sapere, come scrisse in una Testimonianza a corredo del poemetto Al bar degli amori, uscito sempre fuori commercio nel 1995, di una mia raggiunta «piena maturità»? Maturità riconfermata poi nel 2001 da Giovanni Raboni in Nota a I rimanenti (riproponeva, ampliata, l’originaria plaquette di undici anni addietro), nell’attribuirmi una «pronuncia solidamente e inconfondibilmente personale, al di là delle pur rilevabili tangenze con la vocalità di un maestro (maestro, d’altronde, di quasi tutti noi) come Vittorio Sereni» e «l’appartenenza ideale ed affettiva» a quella che battezzò «scuola di Cesenatico», di cui Benzoni fu il rappresentante di spicco.
A onor del vero, io ebbi stretti rapporti unicamente con lui, certo il più “sereniano” del gruppo. Non v’è dubbio che molto devo alla sua paziente e fraterna mediazione se la mia giovanile infatuazione per Sereni, per i suoi versi, per il suo modo di sentire e pensare la poesia, col tempo si è trasformata in un amore senz’altro ben più consapevole. Posso soltanto aggiungere che riconoscersi in Sereni e confrontarsi con Benzoni ha anche significato prendere confidenza col panorama degli autori a loro affini o in vario modo collegati e nel contempo, direi inevitabilmente, distanziarsi dalla voce di un numero imprecisato di altri autori verso i quali mi sento comunque debitore.
Da questi ultimi si apprende, e non è poco, come non si vorrebbe né si potrebbe scrivere. Dizionari a parte, che rimangono pur sempre i migliori sussidi di ogni scrittore, è soltanto attraverso la lettura di tutti, e conseguentemente tramite una serie infinita di scarti e inclusioni, che ci si avvicina a un’espressione in grado di rispecchiare sempre più fedelmente le verità, il temperamento e la sensibilità nostre. In tal senso, come prima tentavo di dire, non si finisce mai di imparare, se restano vitali in noi la curiosità e l’apertura mentale. Apprendere, non per voler essere originali a qualunque costo, diversi da tutti gli altri, anche perché se Dio vuole a qualcuno continueremo pur sempre a somigliare, ma più semplicemente per il fatto di non riuscire davvero mai a sentirsi “arrivati”, come del resto testimoniano, meglio di ogni discorso, i tanti ultimi libri “nuovi” di poeti che appunto “arrivati” lo erano già da tempo: penso ad esempio al, per molti versi spiazzante, Composita solvantur di Franco Fortini.
D’altra parte, null’altro si vorrebbe che restare fedeli a noi stessi, nel convincimento che già in questo principio risieda quell’originalità di cui spesso i critici, a torto o a ragione, lamentano la mancanza. Ormai sono trent’anni che scrivo poesie e ancora oggi, per me, scriverne una è continuare a chiedermi quale sia la forma più consona senza curarmi delle tante già sperimentate, a cercare di trovare il tono giusto e le parole idonee per farla emergere, anche perché ho sempre considerato ogni singolo testo come un individuo a sé stante, con delle sue particolari esigenze e caratteristiche, come “una data materia”, mai come “una materia data”.
Perciò non sono mai stato in grado di prevedere di cosa parlerà la prossima poesia, né quale aspetto assumerà sulla pagina. Talvolta, questo sì, mi è capitato di trovarmi a fare i conti con materie complesse, sfaccettate, che prima di esaurirsi hanno richiesto testi lunghi (Al bar degli amori) o delle suites (Monolocale, Poesie per Christa, Stanze di motel, Locali). Ad ogni modo, usando una metafora sportiva, mi sono sentito subito più “velocista” che “maratoneta”, e forse anche per questo non ho mai saputo cosa voglia dire esattamente “progettare” un libro di poesie, che per quanto mi riguarda resta essenzialmente una raccolta di singole poesie scritte nel corso di anni, secondo diverse disposizioni spirituali, dove però si spera che ogni pagina rechi l’impronta dell’autore. E qui, detto con tutta umiltà, penso ai Canti di Leopardi.
Posso stare anche mesi interi senza il minimo desiderio di scrivere, anzi con una certa nausea al solo pensiero di provarmici, oppure sentirne il bisogno ma non riuscire a trovare il tempo giusto per farlo, nel qual caso prendo appunti, sempre meno però, perché il più delle volte non mi sono serviti a nulla. Per “tempo giusto” intendo dire che ho bisogno di avere la mente sgombra per ritrovarmi in quello “stato di grazia” o estrema concentrazione che mi permette di fissare cose altrimenti sfuggevoli. Devo essere intenzionato a scrivere, e questo è anche il motivo per cui non ricuso a priori il termine “ispirazione”, ma certo mi ha sempre infastidito quel tanto di estraneo che vi s’insinua. Preferisco parlare, più prosaicamente, di “spinta emotiva”. Dopodiché le mie poesie nascono tutte dopo brevi incubazioni, di ore o giorni, già con una loro ben precisa fisionomia. Poi, di tanto in tanto, per un anno o due, le rileggo fin quando non le sento più soltanto mie, come se si fosse tranciato il cordone ombelicale. In seguito, e comunque non prima di aver chiesto le impressioni e talora i consigli di un paio di amici, traslocano dalla cartella dei lavori in corso a quella degli inediti, pronti per la pubblicazione.
Per quanto riguarda il linguaggio, ho sempre cercato di scrivere con naturalezza, secondo le mie reali possibilità, senza alterare la voce. Non ho però mai dimenticato che da chi scrive si pretende una “coscienza di parola”, per dirla con Roland Barthes, che certo non si può pretendere in egual misura dal parlante.
In questo senso credo che la scrittura in generale, e massimamente la poesia, sia un modo “diverso” di comunicare: rispetto a quello più immediato e fatalmente meno duraturo dell’oralità. Ciononostante, nella sostanza, rimane “un modo di comunicare” e, per quanto mi è stato possibile, ho sempre cercato di evitare ogni sorta di oscurità a favore di una parola chiara e comprensibile, spero, un po’ da tutti. Altresì la poesia, in sé, è e continuerà a essere un enigma che nessuno potrà mai svelare, dal momento che fa parte del mistero stesso dell’uomo su questa terra, e l’artista, pittore musicista o scrittore che sia, altro non fa che rendere questo mistero evidente, di volta in volta attraverso i mezzi di cui dispone, la sensibilità che gli è propria e il linguaggio del tempo in cui si trova a operare.
Nelle poesie parlo generalmente del mio vissuto, riportando alla luce cose, figure o fatti che più profondamente si sono incisi nella memoria, obbligandomi per così dire a un risarcimento, probabilmente perché l’esperienza che ne ho tratto non si è rivelata inutile, cosicché restituendola sulla pagina penso che anche il lettore ne possa in qualche misura beneficiare. È un pensiero costante, quello di chiedermi se veramente per me quella poesia è utile, non arrivo a dire necessaria perché mi sembrerebbe francamente troppo, ma insomma se merita di esistere e dunque di entrare in circolo.
Del resto, come recita il proverbio, «tutti utili, nessuno insostituibile». E chi mai ha avuto la presunzione di rivoluzionare il mondo attraverso poesie, quadri, sculture, melodie, se non, forse, qualche esaltato? Discorso più sensato è quello dell’utilità dell’arte in quanto espressione non effimera di una coscienza collettiva, tutela e trasmissione di quei valori eterni ed immutabili per cui l’uomo si riconosce come tale sin dal tempo, diciamo, dei poemi omerici. Non fossi ancora convinto di questo, smetterei di scrivere domani stesso, e senza patemi.
Qui rammento come fosse ieri la mia perplessità di studente nel leggere il discorso tenuto da Montale nel 1975 per il Nobel, quando dichiarò di trovarsi lì per aver scritto poesie, «un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà». Nobiltà a parte, mi sembrò e continua a sembrarmi una infelice boutade, anzi uno sproposito. Molto meno mi aveva ferito, giovanotto pieno di vita e speranze qual ero, quando lessi nell’altrettanto celebre Intervista immaginaria quel che pensava dell’arte, «che l’arte sia la forma di vita di chi veramente non vive: un compenso o un surrogato», perché immaginavo bene che lì Montale non potesse parlare per me, ma solo di sé, tra sé e sé appunto...
Giacomo Leopardi sosteneva che «il dilettare è l’ufficio naturale della poesia», che «l’utile non è il fine della poesia benché questa possa giovare», che «la poesia può essere utile indirettamente», e queste mi sembrano affermazioni decisamente più credibili. Personalmente, per l’utile sono anche disposto a rinunciare al cosiddetto “bello”. Dico cosiddetto perché, come tutti sanno, il bello è soggetto a mode che vanno e vengono. Invece l’utile è oggettivamente riscontrabile: una sedia del Medioevo è forse meno bella e certamente meno confortevole di una sedia odierna, nondimeno serve pur sempre allo scopo per la quale è stata costruita. Per chiudere la questione, resto ancora dell’avviso di Leopardi: «La convenienza al suo fine, e quindi l’utilità ec. è quello in cui consiste la bellezza di tutte le cose, e fuor della quale nessuna cosa è bella». Che in parole povere significa unire l’utile al dilettevole.