sabato 10 dicembre 2011

Walter Benjamin




Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov


   1.
  
   Il narratore – per quanto il suo nome possa esserci familiare – non ci è affatto presente nella sua viva attività. È qualcosa di già remoto, e che continua ad allontanarsi. Presentare Leskov come narratore non significa, quindi, avvicinarlo, ma accrescere la distanza che da lui ci separa. Considerati a una certa distanza, i grandi e semplici tratti che costituiscono il narratore prendono in lui il sopravvento. O, per dir meglio, essi emergono in lui come una testa umana o un corpo animale si disvelano, in una roccia, all’osservatore che si è messo alla giusta distanza e nel giusto angolo visuale. Questa distanza e questa prospettiva ci sono imposte da un’esperienza che abbiamo modo di fare quasi ogni giorno. Essa ci dice che l’arte di narrare si avvia al tramonto. Capita sempre più di rado d’incontrare persone che sappiano raccontare qualcosa come si deve: e l’imbarazzo si diffonde sempre più spesso quando, in una compagnia, c’è chi esprime il desiderio di sentir raccontare una storia. È come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa e sicura di tutte: la capacità di scambiare esperienze.
   Una causa di questo fenomeno è evidente: le azioni dell’esperienza sono cadute. E si direbbe che continuino a cadere senza fondo. Ogni occhiata al giornale ci rivela che essa è caduta ancora più in basso, che non solo l’immagine del mondo esterno, ma anche quella del mondo morale ha subito da un giorno all’altro trasformazioni che non avremmo mai ritenuto possibili. Con la guerra mondiale cominciò a manifestarsi un processo che da allora non si è più arrestato. Non si era visto, alla fine della guerra, che la gente tornava dal fronte ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile? Ciò che poi, dieci anni dopo, si sarebbe riversato nella fiumana dei libri di guerra, era stato tutto fuorché esperienza passata di bocca in bocca. E ciò non stupisce. Poiché mai esperienze furono più radicalmente smentite di quelle strategiche dalla guerra di posizione, di quelle economiche dall’inflazione, di quelle fisiche dalla guerra dei materiali, di quelle morali dai detentori del potere. Una generazione che era ancora andata a scuola col tram a cavalli, si trovava, sotto il cielo aperto, in un paesaggio in cui nulla era rimasto immutato fuorché le nuvole, e sotto di esse, in un campo magnetico di correnti ed esplosioni micidiali, il minuto e fragile corpo dell’uomo.


   2.

   L’esperienza che passa di bocca in bocca è la fonte a cui hanno attinto tutti i narratori. E fra quelli che hanno messo per iscritto le loro storie, i più grandi sono proprio quelli la cui scrittura si distingue meno dalla voce degli infiniti narratori anonimi. Questi ultimi si dividono in due gruppi, che peraltro si compenetrano in molti sensi. E il personaggio del narratore acquista tutta la sua fisica concretezza solo per chi li tenga presenti entrambi. «Chi viaggia, ha molto da raccontare», dice il detto popolare, e concepisce il narratore come quello che viene da lontano. Ma altrettanto volentieri si ascolta colui che, vivendo onestamente, è rimasto nella sua terra, e ne conosce le storie e le tradizioni. Chi si voglia rappresentare questi due gruppi nei loro esponenti arcaici, troverà l’uno incarnato nell’agricoltore sedentario, e l’altro nel mercante navigatore. [...]



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Da Angelus Novus, traduzione e introduzione di Renato Solmi, Einaudi, Torino, ristampa 1993.