sabato 3 dicembre 2011

Roberto Longhi





 
Giorgio Morandi, "Natura morta", 1956.
 



   «La réalité à exprimer résidait, je le comprenais maintenant, non dans l’apparence du sujet, mais dans le degré de pénétration de cette impression à une profondeur où cette apparence importait peu, comme le symbolisaient ce bruit de cuiller sur une assiette, cette raideur empesée de la serviette qui m’avaient été plus précieux pour mon renouvellement spirituel que tant de conversations humanitaires, patriotiques, internationalistes»[1].
   Il passo, scritto da Proust subito dopo la grande guerra (Le Temps Retrouvé, II, 30), è sempre la più esatta introduzione alla pittura di Morandi. Che soltanto scavando dentro e attraverso la forma, e stratificando le “ricordanze” tonali, si possa riescire alla luce del sentimento più integro e puro, ecco infatti la lezione intima di Morandi e il chiarimento immediato della sua riduzione del soggetto che gira al minimo; l’abolizione, in ogni caso, del soggetto invadente che parte in quarta e si divora l’opera e l’osservatore. Oggetti inutili, paesaggi inameni, fiori di stagione, sono pretesti più che sufficienti per esprimersi “in forma”; e non si esprime, si sa bene, che il sentimento. Ed è vero che anche l’impressionismo e il postimpressionismo già prevalevano in nature morte, fiori, paesi, ma il piano era ancora di occasioni favorevoli, di “motivi” sollecitanti, mentre in Morandi è soltanto di simboli necessari, di vocaboli sufficienti ad evitare le secche dell’astrattismo assoluto. Tanto vero che, sullo stesso pretesto materiale, egli ha potuto rendere timbri sentimentali diversi e sempre diversamente inclinare la sua severa elegia luminosa.
   Di fronte a questo impegno d’interiorità spoglia non è a dire quanto sembri irragionevole, se già non fosse indiscreto, chiedere perché Morandi non abbia incontrato nell’arte la “figura”, l’abbia scansata come importuna; quando pure si è confessato così pienamente, ed umanamente, per altra via. Quelli, viene da replicare, sono fatti suoi privati. Ogni uomo cerca i limiti della propria libertà, ognuno fa i suoi incontri. Che, per civile tristezza, Morandi ne abbia, lungo l’ultimo ventennio, schivati parecchi, torna a sua lode. Ma non è da credere che intrecciando una siepe al suo campo egli abbia mai avuto in mente di costruirvisi la torre d’avorio, una cella semmai, dove approfondire, prima di trasmetterlo, il suo messaggio; messaggio clandestino, com’è di  ogni recondita umana verità. Il monaco Morandi nella sua cella è dunque il contrario dell’esteta nella sua torre d’avorio. E se il fascismo ufficiale chiamava torre la cella e lamentava ch’egli non ne uscisse per cimentarsi con le glorie del premio Cremona, non è lecito vederlo in piazza adesso che si dovrebbe aver riacquistato l’uso di ragione.
   Oggi che la palla della pittura italiana è sospesa sulle magre dita della più giovane generazione, senza che si veda se andrà a cadere nel cesto di cenci colorati di un più che frettoloso romanticismo o in quello della più “centristica” nullità mentale e morale, il maestrevole percorso di Morandi potrà servire di lezione ai migliori, proprio per l’umana sostanza; come stimolo a ricercare ancora e sempre dentro di sé, non fuori di sé.





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Dalla Prefazione alla mostra personale di Giorgio Morandi. Catalogo della XXXIII Biennale Internazionale d’Arte, Venezia 1966. Poi nel vol. XIV dell’Edizione delle opere complete di Roberto Longhi, Sansoni, Firenxe 1984 e in Giorgio Morandi, Lettere, a cura di Lorella Giudici, Abscondita, Milano 2004.



[1]
   «La realtà da esprimere risiede, adesso lo comprendevo, non nell’apparenza del soggetto, ma nel grado di penetrazione di tale impressione a una profondità in cui questa apparenza importa ben poco, come lo simboleggiavano quel rumore di cucchiaio contro il piatto, quella ruvidezza inamidata del tovagliolo che mi erano stati più preziosi, per il mio rinnovamento spirituale, di tante conversazioni umanitarie, patriottiche, internazionalistiche». [Nota g. z.]