sabato 10 dicembre 2011

Carlo Cattaneo




Della riforma dell’ortografia


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   Quando diciamo che è meglio scrivere anatomia, cultrice, evangelio, ospitale, solfo, corano in una maniera precisa e costante, e giusta le immediate loro derivazioni, non è buona fede il risponderci che ci mettiamo in un mare d’ipotesi. Nessun fratello ignorantino, il quale non sappia come evangelio vuol dire buona nuova, e come in questo suo significato quella prima sillaba v’è per qualche cosa; onde è più giusto, e anche più rispettoso, pronunciar come Dante piuttosto evangelio ed evangelico, che non vangelo, vangelico e peggio poi guagnele. Non è ipotesi, ma fatto indubitabile che il corano di Maometto sia un libro arabo, e che quell’al che lo precede sia il suo articolo; onde diviene superfluo, quando vi precede già l’articolo italiano. Pure chi non sa l’arabo, se ne potrebbe scusare, se dovesse fare questa ricerca da sé. Ma noi non parliamo a lui, bensì a quei che si arrogano di fare i vocabolari per addottrinar noi barbari traspadani nei misteri d’una lingua che non è cosa nostra; ma è dono grazioso della plebe toscana, largitoci per mezzo degli academici della Crusca, i quali scrivono com’ella pronuncia, e pronunciano com’ella comanda, a guisa veramente di suoi papagalli. E noi pure non amiamo le ipotesi, ma bene i fatti certi e l’esperienza. Dove le ipotesi cominciano, arrestiamoci pure; ma non fingiamo sognare ipotesi ove tutto è certo e incontestabile come la luce del sole.
   Il rimovere dalla scrittura nazionale li arbitrii e li errori non «tende a disciogliere l’uniformità», bensì a stabilirla. Avverso all’uniformità è chi scrive promiscuamente nascondere e niscondere, necessità e nicistà; e come se non bastasse dir vomero e vomere, vi giunta bomere e bomero, bombero e bombere. La regola suprema della pronuncia ad un tempo e della scrittura ne sembra questa: per amore di chiarezza e d’uniformità e di costanza, ogniqualvolta le parole si trovino pronunciate e scritte in più modi, preferire sempre quello, che, nel piegarle alla forma italica, meno le allontana dalla manifesta origine loro, e meglio le collega colle altre voci della nostra lingua. Sgombrare dal dizionario tutte le altre variazioni e difformità.
   Per questa maniera non solo conseguiremo fermezza di scrittura e di pronuncia nella nostra favella, ma quando nelle citazioni verrà in paragone l’italiano con testi d’altre lingue, non vedremo i compositori delle stampe ingemmare di raddoppiamenti toscaneschi anche le parole latine o francesi, e con un respubblica, o un obbligation o un accademie farci parere ignari delle lingue da cui citiamo. Né il confronto porrà in brutta evidenza quell’asserto della Crusca che gli spropositi sono la naturale essenza della nostra lingua e il privilegio della nostra nazione.
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In Scritti filosofici letterari e vari, a cura di Franco Alessio, Sansoni, Firenze 1957, pp. 524-525.