lunedì 5 dicembre 2011

Jean Paulhan




 
                                               Georges Braque, "Due pesci neri", 1940.




Il pittore discreto


La maggior parte dei rimproveri che si rivolgono ogni giorno alla pittura moderna, è troppo stupida per meritare che ci si attardi più di un istante. La persona che ritiene, per esempio, che non si devono dipingere cubi, vacche verdi né donne con chele di granchio perché le donne hanno belle manine e perché i cubi e le vacche verdi non si vedono nella realtà, quel tale non merita neanche che gli si dia una risposta seria. Tanto varrebbe rimproverare all’Angelico di aver dipinto degli angeli, a Delacroix la Libertà. Cioè, non esistono angeli, né Libertà, se si vuole. No. Ma nella realtà accadono dei fatti così strani che bisognerebbe, in mancanza di Libertà, rinunciare a capirci qualcosa; e chi non si è mai sentito crescere penne sulla schiena, peggio per lui. Ora, la pittura è fatta appunto per ricordarci questi eventi: per permetterci di credere in essi. Non so se vi siano troppi quadri nel mondo, non lo credo. Ma se ce ne fosse uno solo, vi si vedrebbe un angelo a cavallo di una vacca verde, e i più modesti graffiti, come si sa, prestano ali alle cose che non ne hanno.
   Eppure, c’è un fondo di verità in quei rimproveri assurdi: è ben vero che la pittura moderna contiene il suo pericolo, e il suo difetto: ha certo ragione di dipingere vacche verdi o cubi. Ma forse se ne compiace un po’ più di quel che dovrebbe. Con troppa insistenza. Con troppa, si direbbe, indiscrezione. L’Angelico dipingeva angeli come se gli angeli fossero del tutto naturali. Ma per la maggior parte i pittori d’oggi hanno almeno questo tratto comune con i loro nemici: hanno l’aria di pensare che è straordinario dipingere chele di granchio e cubi; che è il colmo dell’audacia, e che non c’è bisogno d’altro per essere orgogliosi.
   Basta ascoltarli. Tutto sommato, il loro difetto è così evidente da risaltare chiaramente dai loro discorsi, e dalla loro dottrina: dalla loro scoperta.
  
   Perché hanno fatto una grande scoperta: hanno trovato nientedimeno che il segreto della pittura. Solamente, è una scoperta alla quale si sono subito mostrati impari. Di cui bisogna credere non fossero del tutto degni. Perché Juan Gris (per esempio) ha notato benissimo che non vi era opera classica che non nascondesse un minuzioso calcolo di piani e di proiezioni e di sezioni auree. Ma Juan Gris, da parte sua, non ha sempre nascosto i suoi calcoli: li ostenta. Delaunay osserva giustamente che un bel quadro sussurra sempre qualche ritmo cosmico: ma Delaunay non sussurra affatto i suoi ritmi: li urla. Fernand Léger ha il senso del colore, non ha sicuramente il senso dell’allusione delicata. André Lhote ha perfettamente stabilito, a mezzo di schemi e piani, che il grande paesaggio composito di Rubens o di Patinir suggerisce, su uno sfondo elicoidale, tutto un ingranaggio di cilindri e di coni. Ma capita che le tele di André Lhote somiglino a teoremi piuttosto che a suggestioni. In breve, i pittori hanno scoperto, tra il millenovecento e il millenovecentotrenta, che la buona pittura aveva sempre avuto il suo segreto. E questo segreto si sono affrettati a gridarlo ai quattro venti. Ora (mi scuso di dirlo), un segreto che viene gridato ai quattro venti non ha più il pregio di un segreto. Un’allusione che viene spiegata non ha più il fascino dell’allusione. È certo curioso ritrovare nelle maternità di Gleizes la medesima curva dei pittori medievali. Ma, nei Medievali, la curva formava uno splendido arcobaleno; in Gleizes non è che una sfortunata piccola curva.

   Ho detto che c’era un segreto in Braque. E forse più che un segreto. Giacché Braque, con ogni evidenza, intuisce quel che tutti i grandi pittori hanno intuito: che la pittura è, alla base, allusione misteriosa, e cosa mentale. Ma Braque sa anche ciò che (secondo ogni apparenza) sarebbe stato più difficile sapere ai nostri giorni: che a divulgare il mistero, gli si toglie la sua virtù. Conoscere un segreto conterebbe poco. Ha il senso del segreto. Sa che il pittore deve estremamente diffidare delle sensazioni, e della natura apparente; ma che deve anche affidarsi a loro, fino alla modestia folle e al paradosso; sino a mettersi, con le proprie parole e con i propri miti, dalla parte del quadro contro il pittore. Insomma, l’uomo che ha inventato, dopo Cézanne, la pittura moderna, è anche quello che sa proteggerla dall’indiscrezione.




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Da Braque il Maestro, Prefazione di Sergio Solmi, Traduzione di Renato Turci, Edizione fuori commercio di 600 esemplari a cura degli «Amici di Sergio Solmi», Milano 1984. Titolo originale Braque le Patron, Éditions Gallimard 1952.