domenica 4 dicembre 2011

Giampiero Neri




Informazione e lavoro in poesia


Qualche tempo prima di scrivere il suo famoso Abecedario, libro di lettura per bambini e ragazzi, Tolstoj, come già detto, aveva scritto un saggio, meno famoso ma altrettanto indicativo della sua vocazione didattica, intitolato: “Chi deve imparare a scrivere e da chi, se i ragazzi di campagna da noi, o noi dai ragazzi di campagna”. L’assunto di Tolstoj consisteva principalmente nel contrastare quella letteratura che, per usare una sua espressione, gli sembrava assomigliare sempre di più a un “condimento per una pietanza che non c’è”.
   Non si tratta di seguire Tolstoj fino al termine del suo itinerario che l’ha portato a preferire la Capanna dello zio Tom a Shakespeare. Il problema non interessa soltanto Tolstoj, ma tutti quelli che si interessano di letteratura.
   In questi anni, il poeta irlandese Seamus Heaney, nell’assumere l’incarico di Professore di Poesia a Oxford, si poneva la stessa questione, domandandosi come la poesia potesse diventare di uso corrente.
   Che lo sia stata in passato, ai suoi esordi, non sembra in dubbio.
L’Iliade comprendeva una specie di “summa” delle conoscenze ai tempi di Omero e costituiva l’elemento unificante della cultura greca, dall’Asia minore alle Colonne d’Ercole.
   È noto che le Georgiche sono state lette anche come valido strumento per una conoscenza dell’agricoltura ai tempi di Roma.
   Si potrebbe continuare, ma riassuntivamente è forse opportuno ricordare ancora una volta un verso di Villon che dice “et Jeanne, la bonne Lorraine / qu’Englois brûlerent à Rouen”, dove con dieci parole il poeta ci fa sapere il nome della sua eroina, di dove fosse, come è stata uccisa e da chi, e punto più importante, ci fa sapere che il processo è stato ingiusto. Infatti, perché mai si dovrebbe bruciare chi è buono?
   “Sono assediato dalle idee che devo mettere sulla carta”, scriveva Stendhal, cui premeva quella che è stata chiamata la “riaffermazione delle voci negate” dalla politica, intesa come dominatrice del mondo.
   In questo risiederebbe, secondo alcuni, il “rimedio della poesia”, di offrire alla parte soccombente una possibilità di espressione, rimedio dunque del tutto platonico e destinato a rimanere tale.
   La ricerca di un principio di equità, di equilibrio, si trovava già nella definizione che Campana, “di spirito profetico dotato”, aveva dato della sua poesia: “Non vi sembra che un cafonismo molto carducciano sia alla base delle mie ricerche di equilibrio?”
   Ma in ogni caso non si va oltre questa opposizione teorica, che arriva a cose fatte, se non vuole correre il rischio di diventare arte di propaganda.
   Date queste premesse, che la poesia risponda più propriamente a un atto di cosciente applicazione, a una directio voluntatis, appare come un corollario naturale.
   Si ripiega su più modeste speranze, che non vuol dire abbandono. Da parte di molti continua a rimanere l’esigenza di un “utile” in poesia. Che sia soltanto una stretta di mano, come diceva Celan, è già qualcosa.

[1996]



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Da Prose, a cura di Victoria Surliuga, LietoColle, Faloppio 2008.