martedì 1 novembre 2011

Tomasi di Lampedusa





   I ricordi dell’infanzia consistono presso tutti, credo, in una serie di impressioni visive molte delle quali nettissime, prive però di qualsiasi senso cronologico. Fare una “cronaca” della propria infanzia è, credo, impossibile: pure adoperando la massima buona fede si verrebbe a dare una impressione falsa, spesso basata su spaventevoli anacronismi. Quindi seguirò il metodo di raggruppare gli argomenti, provandomi a dare una impressione globale nello spazio piuttosto che nella successione temporale. Parlerò degli ambienti della mia infanzia, delle persone che la circondarono; dei miei sentimenti, dei quali non cercherò “a priori” di seguire lo sviluppo.
   Posso promettere di non dire nulla che sia falso, ma non credo che vorrò dire tutto. Riservo a me il diritto di mentire per omissione. A meno che non cambi idea.
   Uno dei più vecchi ricordi che mi sia possibile di precisare nel tempo, perché si riferisce a un fatto storicamente controllabile, risale al 30 luglio 1900, quindi al momento in cui avevo qualche giorno più di tre anni e mezzo.
   Mi trovavo insieme a mia madre e alla sua cameriera (probabilmente Teresa, la torinese) nella stanza di toletta, Era questa una stanza più lunga che larga, che prendeva luce da due balconi opposti, situati nei lati stretti, prospicienti l’uno il giardinetto angusto che separava la nostra casa dall’oratorio di S. Zita, l’altro un cortiletto interno. La tavola di toletta, che era a forma “haricot”, con il piano superiore di vetro sotto il quale traspariva una stoffa rosa, e con le gambe ravvolte in una specie di sottana di merletto bianco, era posta dinanzi al balcone che dava sul giardinetto e su di essa vi era, oltre alle spazzole e altri aggeggi, un grande specchio con cornice anch’essa di specchio decorato con stelle e altri ornamenti di cristallo, che mi piacevano assai.
   Era la mattina verso le 11, credo, e vedo la grande luce di estate che entrava dalla finestra con i battenti aperti, ma con le persiane chiuse.
   Mia madre si pettinava, aiutata dalla cameriera, e io non so cosa facessi, seduto per terra nel centro della stanza. Non so se vi fosse con noi anche la mia bambinaia, Elvira, la senese, ma credo di no.
   Ad un tratto sentiamo dei passi affrettati che salgono la scaletta interna che comunicava con l’appartamentino di mio padre, che si trovava al mezzanino inferiore proprio sotto di noi, ed egli entra senza bussare e dice una frase in tono eccitato. Ricordo benissimo l’accento di quello che disse, ma non le parole, né il senso di esse.
   Vedo invece ancora l’effetto che esse produssero; mia madre lasciò cadere la spazzola d’argento a manico lungo che teneva in mano, Marisa disse: “bon Signour!” e tutta la stanza si trovò costernata.
   Mio padre era venuto ad annunziare l’assassinio di re Umberto avvenuto a Monza la sera precedente, il 29 luglio 1900. Ripeto che vedo tutte le striature di luce e ombra del balcone, che odo la voce eccitata di mio padre, il rumore della spazzola che cade sul vetro della toletta, l’esclamazione piemontese della buona Teresa, che risento il senso di sgomento che tutti invase, ma tutto questo rimase personalmente staccato dalla notizia della morte del Re. Il senso per così dire storico mi venne detto dopo, ed esso serve a spiegare la persistenza della scena nella mia memoria.




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Da I luoghi della mia prima infanzia.