giovedì 10 novembre 2011

Henri Matisse




  Henri Matisse, "I pesci rossi", 1912, Museo Puškin, Mosca.





[...] Ho avuto la fortuna, una volta, di sentire i consigli di Rodin per alcuni miei disegni che gli erano stati fatti vedere da un amico. I consigli che mi dette però non mi andavano bene in nessun punto, e in quella circostanza Rodin mostrava soltanto il suo lato di pedanteria. Non poteva fare altrimenti. Infatti quel che i maestri hanno di meglio, la loro stessa ragione di essere, va oltre la loro comprensione. E, non comprendendolo, non possono insegnarlo.
    Una classe di allievi mi ricorda La parabola dei ciechi di Bruegel in cui sarebbe il professore il primo cieco, quello che conduce i seguenti.
    Michel Bréal diceva: «Un professore è un uomo che insegna quello che non sa» (riferito dal figlio Auguste).
    Quanto è penoso vedere dei veri artisti dedicare una parte della loro fatica ad aiutare quelli che non possono camminare da soli. Riescono soltanto a fabbricare bastoni per ciechi per permettere a uomini, che anch’essi potrebbero utilizzare meglio la loro attività, di fare a tentoni un’opera inutile.
   Chi ha veramente qualcosa da dire vi è spinto dalla sua emozione, che lo porta a realizzare la sua opera, in rapporto con le sue individuali qualità.
    Renoir aveva quindi ragione di dire: «Chi, dopo averla girata per tre mesi contro il muro, non sa trovare cosa manca nella sua tela, non ha bisogno di fare pittura».

[...]

    La mia educazione è consistita nel rendermi conto dei diversi mezzi d’espressione del colore e del disegno. L’educazione classica mi ha portato naturalmente a studiare i maestri, ad assimilarli quanto più potevo considerando sia il volume, sia l’arabesco, sia i contrasti, sia l’armonia, e a riportare quelle riflessioni nel lavoro dal vero, finché mi sono reso conto della necessità di dimenticare il mestiere dei maestri o piuttosto di comprenderlo, ma in modo tutto mio. Non è questa la regola per ogni artista di formazione classica? Poi vennero la conoscenza e l’influenza delle arti orientali.

[...]

    Riassumendo, io lavoro senza teorie. Ho soltanto coscienza delle forze che adopero: vado avanti, spinto da un’idea che conosco veramente solo man mano che si sviluppa, mentre il quadro procede. Come diceva Chardin: «Gliene metto ancora [o gliene tolgo, perché io ne raschio via gran parte] finché non sta bene».
    Fare un quadro sembrerebbe logico quanto costruire una casa, se si andasse avanti con dei buoni princìpi. Il lato umano, non c’è da occuparsene. O lo si ha o non lo si ha. Se lo si ha, esso colora l’opera nonostante tutto.




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Da Scritti e pensieri sull’arte, raccolti e annotati da Dominique Fourcade, traduzione di Mimita Lamberti, Abscondita, Milano 2003, pp. 128-129 e 131.