venerdì 11 novembre 2011

Giorgio Seferis





    Quando dico Arte, non intendo la teoria dell’«arte per l’arte». Questa dottrina, che non serve più a niente, ha finito col designare il lavoro di un impotente che fabbrica vuote squisitezze in una camera sterilizzata. Intendo solo la categoria spirituale costituita dalle buone opere d’arte, passate o presenti, quelle che fanno testo, quelle che ci saranno maestre. Se guardiamo i risultati che scaturiscono da queste opere, vedremo che esse non sono punto estranee alle lotte e alle passioni del tempo. «Il grande artista» si è detto «non appartiene al suo tempo, è il suo tempo.» In effetti, la vita del poeta, il complesso delle impressioni, sensazioni, reazioni che costituiscono la materia della sua opera, sono una porzione dell’umanità che lo circonda, insieme con le sue angosce, i suoi dolori, la sua grandezza, i suoi scacchi. Quanto più l’artista è «pari a se stesso» (e vorrei che questo s’intendesse non già nel senso di una consapevolezza superficiale, bensì di un discernimento capace di risalire alle radici più profonde e segrete dell’esistenza umana), tanto più pienamente egli trasfonde il suo tempo nell’opera.

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L’arte è un mutuo, illimitato rapporto fiduciario: chi non intende tale rapporto non può vantarsi d’intenderla.
    Perciò assai mi duole l’ignoranza che riscontriamo attorno a noi così spesso, e plaudo all’appello: «Signori, leggete i classici: non li leggerete mai abbastanza!» Ma mi dà noia vedere l’ostinata insistenza su uno iato – per me inesistente – che isolerebbe i classici dai non classici e che, in ultima analisi, non sussiste di fatto che tra gli artisti buoni e gl’indegni (ovverosia inesistenti). I piccoli, gl’ignoranti, quelli che non si reggono in piedi, siano imitatori di Pindaro o di Goethe, di Baudelaire o di Palamàs o del surrealismo, valgono sempre lo stesso. E quando calcoliamo quanta cattiva poesia, voglio dire quanta arte accademica, s’è prodotta in nome dei classici, dovremmo pronunziare più grave condanna di quei mediocri, che s’attaccano ai «valori eterni» e li contraffanno, come i parassiti che disseccano gli alberi secolari. E mi stupisco che in questa querelle des anciens et des modernes, che non è solo di oggi, si calchi l’accento dalla parte dei classici, riservando ai moderni null’altro che antipatia.



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Da Le parole e i marmi, a cura di Filippo Maria Pontani, Il Saggiatore, Milano 1965, pp. 14 e 17-18.