sabato 5 novembre 2011

Robert Louis Stevenson





   In qualsiasi cosa che abbia una qualche attinenza con la parola leggere, il procedimento dovrebbe essere affascinante e voluttuoso; dovremmo immergere lo sguardo in un libro, venir del tutto rapiti fuori di noi stessi, e staccarci dalla lettura con la mente ripiena della più affaccendata e caleidoscopica danza di immagini; incapaci di sonno o di un pensiero continuo. Le parole, qualora il libro sia eloquente, scorrerebbero da allora in poi nel nostro orecchio come il rumore dei frangenti, e la storia, se di storia si trattasse, si ripeterebbe all’occhio in un migliaio di quadri colorati. Proprio per quest’ultimo piacere leggevamo così attentamente, e amavamo così teneramente i nostri libri, nel vivace e torbido periodo dell’adolescenza. L’eloquenza e il pensiero, il carattere e la conversazione, non erano che ostacoli da scansare allorché andavamo allegramente in cerca di un certo genere di casi, come un maiale va in cerca di tartufi. Per parte mia, mi piaceva che una storia cominciasse con una vecchia osteria sul margine della strada dove «Verso la fine dell’anno 17**» alcuni uomini dal cappello a tre punte stavano giocando a bocce. Un mio amico preferiva la costa del Malabar durante la tempesta, con un bastimento che fosse sbattuto dal vento, e un torvo individuo di proporzioni erculee che percorresse in su e in giù la spiaggia: certo, era un pirata.


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   Abbiamo di recente provato un piacere tutto speciale nell’ascoltare nei loro particolari le opinioni del signor Walter Besant e del signor Henry James sull’arte da loro praticata. Sono, costoro, due uomini di un calibro certamente molto diverso: il signor James così preciso nel disegno, così abile nella scherma, così scrupoloso nella finitezza, e il signor Besant così geniale, così cordiale, con una vena di spirito così persuasiva e piacevole; il signor James vero tipo dell’artista cosciente, il signor Besant personificazione della bonomia. Che dei maestri siffatti siano diversi tra loro è cosa che non può sorprendere; invece un punto nel quale sembrano accordarsi mi empie, lo confesso, di stupore. Poiché ambedue parlano con soddisfazione dell’«arte dell’inventare», e il signor Besant, facendosi eccessivamente ardito, arriva a opporre questa cosiddetta «arte dell’inventare» all’«arte poetica». Per arte poetica egli non può intendere altro che l’arte di far versi, opera di artigiano, e la sola comparabile all’arte della prosa. Infatti quel calore e quell’altezza di sana emozione che siamo concordi nel chiamare con il nome di poesia non è che una qualità libertina e vagabonda; presente, a volte, in qualsiasi arte, più spesso assente da tutte; troppo spesso presente nel romanzo in prosa, troppo spesso assente dall’ode e dall’epica. Lo stesso si può dire dell’invenzione: non è arte sostanziale in se stessa, ma un elemento che penetra abbondantemente in tutte le arti eccettuata l’architettura. Omero, Wordsworth, Fidia, Hogarth e Salvini hanno a che fare con l’invenzione; pure non credo che né Hogarth, né Salvini, per non nominare che questi due, rientrassero in alcun modo nelle intenzioni dell’interessante conferenza del signor Besant o nel delizioso saggio del signor James. L’arte inventiva, dunque, se si prendono queste parole come una definizione, è dir cosa nello stesso tempo troppo ampia e troppo ristretta. Lasciatemene suggerire un’altra; lasciatemi dire che ciò a cui alludevano tanto il signor James quanto il signor Besant era né più né meno che l’arte narrativa.




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Da Memorie (titolo originario Memories and Portraits, 1887), introduzione di Paola Colaiacomo, nella traduzione di Flaminia Cecchi, «Gli introvabili», Editori riuniti, Roma 1997, p. 137 e pp. 165-166. Che è anche un invito alla ripubblicazione del libro, effettivamente “introvabile” in libreria.