lunedì 14 novembre 2011

Roland Barthes





    Nulla è più essenziale a una società che la classificazione dei suoi linguaggi. Cambiare questa classificazione, spostare la parola, è fare una rivoluzione. Per due secoli il classicismo francese si è definito per la separazione, la gerarchia e la stabilità delle sue scritture, e la stessa rivoluzione romantica si è presentata come uno sconvolgimento di classificazione. Orbene, da circa cento anni, certo dopo Mallarmé, è in corso un vasto rimaneggiamento dei luoghi della nostra letteratura: ciò che si scambia, si compenetra e si unifica è la doppia funzione, poetica e critica, della scrittura[1]. Non solo gli scrittori stessi fanno della critica, ma spesso la loro opera enuncia le condizioni della sua nascita (Proust) o anche della sua assenza (Blanchot); un medesimo linguaggio tende a circolare ovunque nella letteratura, e persino dietro se stesso. Il libro è così preso alle spalle da colui che lo fa; non ci sono più né poeti né romanzieri: rimane solo una scrittura[2].







[1] Cfr. GERARD GENETTE, Rhétorique et enseignement au XXe siècle, «Annales», marzo-aprile 1966 [tradotto in «Sigma», n. 11-12, dicembre 1966].
[2] «La poesia, i romanzi, le novelle sono strane antichità che non ingannano più nessuno, o quasi. Perché mai si dovrebbero fare racconti o poesie? Non rimane più che la scrittura» (J.-M.-G. Le Clézio, premessa a La flèvre).
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Da Critica e verità, Einaudi, Torino, ristampa 1985, p. 41.