domenica 13 novembre 2011

Massimo Raffaeli




    Che cosa significa scrivere di critica militante? L’espressione è ormai postdatata e persino anacronistica. Da decenni è venuto meno un esplicito mandato sociale agli scrittori e ciò comporta una sostanziale opacità, ovvero una capitale ambiguità, anche e soprattutto per coloro, i critici, che sono firmatari di «scritture secondarie», come le ha chiamate George Steiner in un attimo di resipiscenza e di ambiguo pentimento. Significa, probabilmente, operare nella zona intermedia (e nel rischio progressivo dell’obsolescenza, della vanità) che si situa tra la filologia o, come oggi si dice, la scienza della letteratura e invece le mansioni, di carattere informativo e pubblicitario, tutelate dall’industria culturale. La nascita di «Alias», nel giugno del 1998, ha garantito e continua a garantire uno spazio alla critica (nel senso etimologico del “distinguere” per “valutare”) e dunque a un’attitudine che sia la nuda scienza della letteratura sia l’industria culturale tendono a ritenere inessenziale, anzi irrilevante, come si trattasse di un reperto dell’Illuminismo, perito con la sua medesima dialettica, e di un fossile della modernità. Tanto più che l’uscita, presso «il manifesto», del supplemento del sabato ha favorito non solo uno spazio di riflessione impensabile negli altri giornali ma, nel corso di un decennio, anche il precisarsi di singole individualità, tutt’altro che omologhe, che oggi corrispondono in Italia alla critica letteraria tout court, o all’incirca. Ciò ha permesso a chiunque vi partecipasse un continuo confronto e una costante verifica del suo punto di vista: le riunioni redazionali sono state poche ma davvero memorabili per l’intensità e la durezza del dibattito interno. Lì non c’è mai stata l’indulgenza o quella disarmante forma di complicità che Edmun Wilson paventava scrivendo Il Polonio dei letterati a uso e edificazione di chi redige, nei giornali, i supplementi dedicati ai libri.
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Dalla Premessa a Bande à part, Gaffi, Roma 2011.