Sembra ovvio, addirittura banale, ma occorre dirlo fin dall’inizio: il tipo dominante di scrittore e di critico si è gradualmente modificato nel corso della decadenza del capitalismo; di conseguenza si è mutato anche il rapporto tipico tra scrittore e critico.
Sembra altrettanto ovvio, e persino banale – eppure occorre ripeterlo ogni volta – che il movente principale di questa deformazione è la divisione capitalistica del lavoro. Essa ha trasformato lo scrittore ed il critico in specialisti, togliendo loro quella universalità e quella concretezza di interessi umani, sociali, politici e artistici che contraddistinsero la letteratura del Rinascimento e dell’illuminismo, la letteratura di tutti i periodi che hanno preceduto e preparato una rivoluzione democratica; essa ha infranto per entrambi l’unità dinamica dei fenomeni della vita, sostituendola con «campi» circoscritti (arte, politica, economia ecc.), separati l’uno dall’altro e privi di relazioni tra loro, che si presentano alla coscienza o fissati nella loro separatezza o unificati in pseudosintesi astratte e soggettive (razionalistiche o mistiche).
È infine ovvio che tutto ciò si riferisca alla corrente principale dello sviluppo degli ultimi decenni. La lotta condotta da alcuni notevoli umanisti contro la totalità di questi fenomeni – una lotta socialmente vana nell’ambito del capitalismo reazionario, ma molto utile sul piano ideologico – non fa altro che sottolineare la necessità dello sviluppo complessivo.
Sia gli scrittori che i critici diventano dunque degli specialisti che operano nel campo specifico loro assegnato dalla divisione del lavoro. Lo scrittore ha fatto della sua interiorità un mestiere. Ed anche quando questo mestiere non porta al completo adattamento alle esigenze quotidiane del mercato librario capitalistico, come accade per la maggioranza degli scrittori, anche quando alcuni di essi manifestano soggettivamente una ostinata opposizione contro il mercato librario e le sue pretese – l’atteggiamento dello scrittore verso la vita e, quindi, verso l’arte, necessariamente si deforma e si impoverisce.
Nel momento in cui lo scrittore, che si trova artisticamente all’opposizione, fa della letteratura un fine in sé, ponendo polemicamente in primo piano l’autonomia della letteratura, vengono trascurati i grandi problemi della «rappresentazione» e della «formazione», quei problemi, cioè, che nascono dal bisogno sociale di una grande arte, dal bisogno di una riproduzione comprensiva e profondamente poetica delle tendenze generali e costanti dell’evoluzione umana. E al loro posto subentrano questioni da laboratorio, concernenti la tecnica espositiva immediata.
Con l’avanzare di questo processo, aumenta il carattere artigianale, tecnico e soggettivo di queste questioni, ed esse distolgono sempre più dai grandi problemi universali della letteratura, considerati sia dal punto di vista sociale che da quello artistico. La resistenza che la realtà capitalistica oppone all’arte annulla le differenze tra i generi, e le annulla anzitutto mediante il carattere anti-artistico della nuova materia di vita, vinto finora soltanto da pochi scrittori che hanno acquisito la massima coscienza dei problemi dell’arte. D’altra parte solo pochi ostinati sono in grado di resistere a tutti gli allettamenti offerti dalla realtà capitalistica. Terze pagine, regie teatrali e cinematografiche, rotocalchi – tutto ciò contribuisce, più o meno intenzionalmente, a confondere il senso di un’arte autentica. Scrittori che producono, a partire dal medesimo spunto, romanzi d’appendice, film, drammi e libretti d’opera perdono inevitabilmente qualsiasi sensibilità per una espressione autentica e per una rappresentazione artistica adeguata. Scrittori che abbandonano i loro prodotti a registi cinematografici e teatrali, perché diano loro l’ultima mano, che si abituano alla consegna di «semilavorati», che arrivano a teorizzare la legittimità di una simile praxis, tanto contraria ai fini dell’arte, non possono certo rivivere interiormente i veri problemi estetici.
L’ironia storica dello sviluppo artistico durante il capitalismo si rivela nel fatto che molti scrittori che si oppongono con sincerità e intelligenza alla banalizzazione mortale operata dall’esercizio capitalistico dell’arte, affrettano, con le loro teorie o con la loro praxis artistica, il processo di progressiva dissoluzione delle forme che esso promuove. Parlando convintissimi – con una spregiudicatezza che rasenta il paradosso – della loro soggettività, dei loro stati d’animo, dei loro problemi espressivi puramente individuali, essi vorrebbero contrastare il cammino al processo di brutale livellamento e di crescente impoeticità della letteratura borghese. E tuttavia ciò che essi obiettivamente ottengono, tanto nella teoria che nella praxis, è un ulteriore affossamento delle forme poetiche: una anticipazione «profetica» delle tendenze letterarie che saranno di moda qualche decennio (o solo qualche anno) più tardi, un’anticipazione, cioè, di un nuovo genere di livellamento e di svuotamento delle opere letterarie.
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Da Lo scrittore e il critico, in Scritti di sociologia della letteratuta, Mondadori, Milano 1976. Traduzione di Giovanni Piana.