martedì 15 novembre 2011

Paul Cézanne




Paul Cézanne, "La casa con la crepa nel muro", 1892-1894.




A un fornitore di colori e materiali per dipingere di Melun

21 settembre 1894

    Ieri, 20 c.m., ho preso da voi quattro tele, di cui tre da 20 e una da 25. Le prime tre a due franchi e 50, quella da 25 a due franchi e 80. Il totale è dunque di 10 franchi e 30 e non di 11 franchi e 50 come in sbaglio ho pagato.
    Penso che vorrete gentilmente tenerne conto quando verrò di nuovo a Melun.



A un fornitore

Fontainebleau, 6 luglio 1905

    Ieri ho avuto il piacere di ricevere le tele e i colori che avevo ordinato, ma aspetto con impazienza la scatola che vi avevo pregato di aggiustarmi, e inoltre una tavolozza con un foro sufficiente per farvi passare il pollice...





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Dalle Lettere, a cura di Elena Pontiggia, SE, Milano 1997.

g. z.




Per pochi


Quando non ci si riferisca a carte private, che pure talvolta si possono rivelare di indubitabile pregio, basti pensare alle postume Lettere a un giovane poeta di Rilke, mi sembra ovvio ritenere che gli scrittori scrivano per tutti.
Che però poi, al di là della platea potenzialmente illimitata a cui si rivolgono i libri, si scriva per pochi, non è meno vero, anche se questa è una verità che in fondo riguarda soltanto gli scrittori.
Del resto, come il primo insegnamento che Rilke indirizzava al giovane signor Kappus:
«Questo anzitutto: domandatevi nell’ora più silenziosa della vostra notte: devo io scrivere? Scavate dentro voi stesso per una profonda risposta. E se questa dovesse suonare consenso, se v’è concesso affrontare questa grave domanda con un forte e semplice «debbo», allora edificate la vostra vita secondo questa necessità.»




Cesare Pavese




16 maggio. [1936]


    Che alla produzione di un’opera occorra il pubblico, è indubitabile. Ci sono però molte opere che sono nate senza quell’apparente cerchia ansiosa e turbolenta e disordinata, che fa sorgere la grande arte.
    Ma il pubblico non mancava. Semplicemente, l’autore se l’era immaginato, l’aveva creato (che vuol dire: definito, scelto e amato). In genere gli antichi, fino al romanticismo, ebbero la cerchia materialmente intesa; i moderni sono distinti dall’assenza di questa e rivelano anzitutto la loro grandezza (come gli antichi la rivelarono nella istintiva comprensione del vero pubblico, al di là dei pedanti) nella scelta e creazione che sanno farsi dei loro lettori.
    Osservo pure che è falso credere possibile una progressiva creazione di un proprio pubblico da parte di uno scrittore. Così si crea il pubblico materiale, se mai, quello dell’editore. Ma il pubblico vero dev’essere tutto supposto fin dalla prima opera.




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Da Il mestiere di vivere (Diario 1935-1950), Club del Libro, Cles 1981, p. 43.

lunedì 14 novembre 2011

Roland Barthes





    Nulla è più essenziale a una società che la classificazione dei suoi linguaggi. Cambiare questa classificazione, spostare la parola, è fare una rivoluzione. Per due secoli il classicismo francese si è definito per la separazione, la gerarchia e la stabilità delle sue scritture, e la stessa rivoluzione romantica si è presentata come uno sconvolgimento di classificazione. Orbene, da circa cento anni, certo dopo Mallarmé, è in corso un vasto rimaneggiamento dei luoghi della nostra letteratura: ciò che si scambia, si compenetra e si unifica è la doppia funzione, poetica e critica, della scrittura[1]. Non solo gli scrittori stessi fanno della critica, ma spesso la loro opera enuncia le condizioni della sua nascita (Proust) o anche della sua assenza (Blanchot); un medesimo linguaggio tende a circolare ovunque nella letteratura, e persino dietro se stesso. Il libro è così preso alle spalle da colui che lo fa; non ci sono più né poeti né romanzieri: rimane solo una scrittura[2].







[1] Cfr. GERARD GENETTE, Rhétorique et enseignement au XXe siècle, «Annales», marzo-aprile 1966 [tradotto in «Sigma», n. 11-12, dicembre 1966].
[2] «La poesia, i romanzi, le novelle sono strane antichità che non ingannano più nessuno, o quasi. Perché mai si dovrebbero fare racconti o poesie? Non rimane più che la scrittura» (J.-M.-G. Le Clézio, premessa a La flèvre).
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Da Critica e verità, Einaudi, Torino, ristampa 1985, p. 41.

Vittorio Sereni





    S’intende che di queste confidenze, come chiamarle altrimenti?, non faccio una regola, tanto meno per altri. Cerco solo, perché questo mi è stato domandato e a questo solo rispondo, di rendere conto di come vedo me stesso di fronte a ciò che scrivo o meglio ancora ho scritto: con riluttanza data dal disagio di andare attorno con la qualifica di scrittore e più specificatamente di poeta, denominazione di cui non c’è ragione di vergognarsi ma che mi disturba se appena penso a quella specie di corpo separato, di inesorabilmente recintato zoo che è divenuto, per tante ragioni e nonostante molti segni contrari, che ritengo fallaci o speciosi, il mondo degli scrittori e in particolare dei poeti. Avere coscienza di questo e al tempo stesso avere puntato troppo nel corso di un’esistenza sul pensiero dominante della poesia, ecco una grave contraddizione di cui soffro e che debbo tuttavia ammettere. Ciò non toglie che vorrei veder dissolversi quel mondo – ho detto degli scrittori e dei poeti, non della scrittura e della poesia, ossia delle opere –, cadere le sbarre che recingono lo zoo del corpo separato al quale nonostante tutto appartengo.

[...]

    A Milano, qualche anno fa, c’è stata una mostra d’arte intitolata La ricerca dell’identità, titolo contestato da alcuni in quanto mero pretesto, insegna gratuita sotto cui riunire un certo numero di opere più o meno pregevoli, più o meno indicative. Comunque sia quel titolo ha il senso di una giustificazione provvisoria, di una risposta alle oziose domande del perché e del per chi si scrive o, in genere, si opera. Non fa che rispondere a un motivo ricorrente nel nostro tempo, tanto da far dire che tutto, oggi, ogni operazione o manifestazione fondata su una volontà espressiva non è altro che ricerca dell’identità. Difficile supporre, oggi che nessuno si sentirebbe più di immaginare una definizione dell’arte, della poesia e tanto meno di immaginarla una volta per tutte, difficile supporre che un dipinto o una poesia o in generale una forma perseguita con intenti d’arte abbia altro significato che questo; non una definizione del fatto di mettere segni sulla tela o parole sulla carta, ma certo una motivazione o addirittura una discolpa per operazioni del genere: appunto, la ricerca dell’identità.




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Da Autoritratto, in Gli immediati dintorni primi e secondi, Il Saggiatore, Milano 1983. Poi in La tentazione della prosa, a cura di Giulia Raboni, Mondadori, Milano 1998.

domenica 13 novembre 2011

Franco Fortini





    Va poi ricordato che nello scorso mezzo secolo e, soprattutto nell’ultimo ventennio, molto è mutata l’immagine che l’autore di versi ha di sé medesimo. Se Guido Gozzano diceva di vergognarsi di essere un poeta, nel 1925 Eugenio Montale poteva compiangere che la voce «che amore detta» gli si facesse «lamentosa letteratura», e una quarantina d’anni più tardi Vittorio Sereni iniziava ironicamente una sua poesia con le parole Se ne scrivono ancora (sottointendendo: di poesie). Eppure se il compiacimento della padronanza tecnica e la tradizione secolare possono ancora infondere in un autore il senso della partecipazione a una corporazione privilegiata e gloriosa, sempre più sembra diffondersi – come è accaduto anche in altri tempi e culture – l’idea che la comunicazione letteraria e poetica sia invero una funzione del linguaggio, che chiunque può usare, a fini di conoscenza e di educazione.



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Da I poeti del Novecento, Laterza, Bari 1977 (ristampa 1988, p. 5).

Alberto Giacometti



Alberto Giacometti, "L'uomo che cammina", 1960.




[...]
    Ho lavorato col modello ogni giorno, dalla mattina alla sera, dal 1935 al 1940.
    Niente era come l’immaginavo. Una testa (lasciai perdere ben presto le figure, era troppo) diveniva per me un oggetto totalmente sconosciuto e privo di dimensioni. Due volte all’anno iniziavo due teste, sempre le stesse, senza mai venirne a capo e alla fine mettevo da parte quegli studi (di cui conservo ancora le forme in fonderia).
    Finalmente, nel tentativo di concretizzarle almeno un poco, ripresi a lavorare a memoria, ma lo feci soprattutto per scoprire che cosa mi rimanesse di tutto quel lavoro. (Per tutti quegli anni ho disegnato e anche dipinto un po’, e quasi sempre dal vero.)
    Ma volendo riprodurre a memoria quel che avevo visto, atterrito scorgevo le sculture farsi sempre più piccole, erano somiglianti soltanto se piccole, e tuttavia trovavo disgustosa la loro piccolezza, e instancabilmente ricominciavo per ritrovarmi, mesi dopo, al medesimo punto.
    Una figura grande per me era falsa e una piccola ugualmente intollerabile, e poi diventavano così minuscole che con un ultimo colpo di temperino spesso sparivano per sempre nella polvere.
    Tuttavia, sia le teste che le figure mi sembravano un po’ vere soltanto se erano piccole.
    Tutto ciò cambiò un poco nel 1945, grazie al disegno.
    Fu quest’ultimo che mi portò a voler fare figure più grandi, ma allora, e ciò mi stupì, erano somiglianti solo se lunghe e sottili.
    Oggi mi trovo pressappoco allo stesso punto, anzi no, ieri, e in questo momento mi rendo conto che se posso disegnare facilmente le sculture più vecchie, non potrei disegnare quelle degli anni recenti. Forse, se potessi disegnarle, non occorrerebbe più che le realizzassi nello spazio, ma non ne sono certo.
    Mi fermo, d’altronde qui stanno per chiudere, bisogna che paghi il conto.




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Dalla Lettera a Pierre Matisse, in Yves Bonnefoy, Alberto Giacometti, Abscondita, Milano 2004.

Massimo Raffaeli




    Che cosa significa scrivere di critica militante? L’espressione è ormai postdatata e persino anacronistica. Da decenni è venuto meno un esplicito mandato sociale agli scrittori e ciò comporta una sostanziale opacità, ovvero una capitale ambiguità, anche e soprattutto per coloro, i critici, che sono firmatari di «scritture secondarie», come le ha chiamate George Steiner in un attimo di resipiscenza e di ambiguo pentimento. Significa, probabilmente, operare nella zona intermedia (e nel rischio progressivo dell’obsolescenza, della vanità) che si situa tra la filologia o, come oggi si dice, la scienza della letteratura e invece le mansioni, di carattere informativo e pubblicitario, tutelate dall’industria culturale. La nascita di «Alias», nel giugno del 1998, ha garantito e continua a garantire uno spazio alla critica (nel senso etimologico del “distinguere” per “valutare”) e dunque a un’attitudine che sia la nuda scienza della letteratura sia l’industria culturale tendono a ritenere inessenziale, anzi irrilevante, come si trattasse di un reperto dell’Illuminismo, perito con la sua medesima dialettica, e di un fossile della modernità. Tanto più che l’uscita, presso «il manifesto», del supplemento del sabato ha favorito non solo uno spazio di riflessione impensabile negli altri giornali ma, nel corso di un decennio, anche il precisarsi di singole individualità, tutt’altro che omologhe, che oggi corrispondono in Italia alla critica letteraria tout court, o all’incirca. Ciò ha permesso a chiunque vi partecipasse un continuo confronto e una costante verifica del suo punto di vista: le riunioni redazionali sono state poche ma davvero memorabili per l’intensità e la durezza del dibattito interno. Lì non c’è mai stata l’indulgenza o quella disarmante forma di complicità che Edmun Wilson paventava scrivendo Il Polonio dei letterati a uso e edificazione di chi redige, nei giornali, i supplementi dedicati ai libri.
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Dalla Premessa a Bande à part, Gaffi, Roma 2011.

sabato 12 novembre 2011

Goffredo Fofi





La cultura del miele e della colla


    I Meridiani Mondadori hanno dedicato un volume a Tutte le poesie e prose scelte di un grande del Novecento, lo spagnolo Antonio Machado, che nel suo Juan de Mairena, che io farei adottare come libro di testo da tutte le scuole superiori europee, dice: «La verità è la verità, la dica Agamennone o il suo porcaro. Agamennone: Sono d’accordo. Il porcaro: Non mi convince». Più vicino a noi, don Tonino Bello scrisse che se è importante confortare gli afflitti, dovrebbe essere oggi altrettanto importante «affliggere i confortati». Non erano concilianti, queste due belle persone, e non credevano nella cultura come panacea, come miele e colla che annullano le differenze. La cultura era per loro visione e conoscenza del mondo, scelta di campo, «battaglia delle idee».
    Oggi va di moda il contrario, e fa scandalo ripetere quest’ovvietà. La cultura con cui dobbiamo quotidianamente confrontarci è una specie di tranquillante e di sonnifero, che ci distrae e ci aiuta a non pensare invece che a pensare, a dimenticarci invece che a trovarci; è un consumo indifferenziato che nelle intenzioni di chi lo propone e amministra deve servire a renderci inattivi invece che attivi. Le istituzioni della cultura e i suoi gestori si preoccupano del successo e del consenso, della superficie e dell’attualità invece che del radicamento, della lunga durata, della qualità e della possibilità di incidere in profondità nell’humus di una popolazione e di un’epoca. Se dunque la produzione di consenso avviene in buona parte attraverso il campo vasto e indeterminato della cultura, che si mescola tutta o quasi tutta allo spettacolo, e se, cosa non secondaria, una nuova economia tiene lontani i giovani dalla produzione spingendoli in massa – con l’alibi della creatività e le menzogne del facile successo – verso pratiche superficialmente culturali e artistiche, allora la cultura è davvero una pedina centrale, centralissima, che i politici possono giocare, è una base consistente per la loro gestione del potere. E già così è, a destra e a manca e da decenni, dentro un sistema mediatico tutto proteso alla distrazione, al rumore di fondo e all’effimero, dominato dalle mille forme della pubblicità e delle grandi agenzie finanziarie; e con più abilità intervengono nella «cultura» quei poteri che più possiedono e che più controllano.
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Da Zone grigie, Donzelli, Roma 2011.

venerdì 11 novembre 2011

Aristotele





I pesci all’inizio della riproduzione sono quasi tutti in buone condizioni, ma con il procedere della riproduzione stessa alcuni lo sono e altri no. La menola è buona durante la riproduzione; la femmina ha una conformazione arrotondata, mentre il maschio è più lungo e più grosso; si dà il caso che quando la femmina inizia a riprodursi i maschi assumano un colore nero e variegato, e che siano pessimi da mangiare: in questo periodo certuni li chiamano capri. Mutano il colore secondo la stagione anche quelli chiamati merli e labri, e la squilla, come fanno anche alcuni uccelli: in primavera diventano neri, passata la primavera di nuovo bianchi. Anche il pesce d’alga cambia colore, poiché per il resto del tempo è bianco, mentre in primavera è variegato: si tratta del solo pesce di mare che, a quanto si dice, costruisca un nido, e che deponga nel nido. Muta anche la menola, come si è detto, e lo smaride, che da bianchi in estate ridiventano all’inverno neri, e questo è evidente soprattutto sulle pinne e sulle branchie. La corvina è ottima durante la riproduzione, come anche la menola. Cestra, branzino e gli altri squamosi durante la riproduzione sono invece quasi tutti di cattiva qualità. Altri hanno qualità simile durante la riproduzione e non sono pochi di numero, ad esempio il glauco. Sono di cattiva qualità i pesci vecchi, e i tonni vecchi sono di cattiva qualità anche per la salatura, poiché la carne si corrompe di molto; la stessa cosa capita anche nel caso degli altri pesci. Quelli vecchi si distinguono con evidenza in base alla grandezza delle pinne e alla durezza. È capitato di prendere un vecchio tonno del peso di quindici talenti, con una coda della larghezza di due cubiti e una spanna.




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Da Vita attività e carattere degli animali. Historia Animalium – Libri VIII-IX, traduzione dal greco di Andrea L. Carbone, :duepunti edizioni, Palermo 2008, pp. 62-63.

Giorgio Seferis





    Quando dico Arte, non intendo la teoria dell’«arte per l’arte». Questa dottrina, che non serve più a niente, ha finito col designare il lavoro di un impotente che fabbrica vuote squisitezze in una camera sterilizzata. Intendo solo la categoria spirituale costituita dalle buone opere d’arte, passate o presenti, quelle che fanno testo, quelle che ci saranno maestre. Se guardiamo i risultati che scaturiscono da queste opere, vedremo che esse non sono punto estranee alle lotte e alle passioni del tempo. «Il grande artista» si è detto «non appartiene al suo tempo, è il suo tempo.» In effetti, la vita del poeta, il complesso delle impressioni, sensazioni, reazioni che costituiscono la materia della sua opera, sono una porzione dell’umanità che lo circonda, insieme con le sue angosce, i suoi dolori, la sua grandezza, i suoi scacchi. Quanto più l’artista è «pari a se stesso» (e vorrei che questo s’intendesse non già nel senso di una consapevolezza superficiale, bensì di un discernimento capace di risalire alle radici più profonde e segrete dell’esistenza umana), tanto più pienamente egli trasfonde il suo tempo nell’opera.

[...]
 
L’arte è un mutuo, illimitato rapporto fiduciario: chi non intende tale rapporto non può vantarsi d’intenderla.
    Perciò assai mi duole l’ignoranza che riscontriamo attorno a noi così spesso, e plaudo all’appello: «Signori, leggete i classici: non li leggerete mai abbastanza!» Ma mi dà noia vedere l’ostinata insistenza su uno iato – per me inesistente – che isolerebbe i classici dai non classici e che, in ultima analisi, non sussiste di fatto che tra gli artisti buoni e gl’indegni (ovverosia inesistenti). I piccoli, gl’ignoranti, quelli che non si reggono in piedi, siano imitatori di Pindaro o di Goethe, di Baudelaire o di Palamàs o del surrealismo, valgono sempre lo stesso. E quando calcoliamo quanta cattiva poesia, voglio dire quanta arte accademica, s’è prodotta in nome dei classici, dovremmo pronunziare più grave condanna di quei mediocri, che s’attaccano ai «valori eterni» e li contraffanno, come i parassiti che disseccano gli alberi secolari. E mi stupisco che in questa querelle des anciens et des modernes, che non è solo di oggi, si calchi l’accento dalla parte dei classici, riservando ai moderni null’altro che antipatia.



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Da Le parole e i marmi, a cura di Filippo Maria Pontani, Il Saggiatore, Milano 1965, pp. 14 e 17-18.

giovedì 10 novembre 2011

Henri Matisse




  Henri Matisse, "I pesci rossi", 1912, Museo Puškin, Mosca.





[...] Ho avuto la fortuna, una volta, di sentire i consigli di Rodin per alcuni miei disegni che gli erano stati fatti vedere da un amico. I consigli che mi dette però non mi andavano bene in nessun punto, e in quella circostanza Rodin mostrava soltanto il suo lato di pedanteria. Non poteva fare altrimenti. Infatti quel che i maestri hanno di meglio, la loro stessa ragione di essere, va oltre la loro comprensione. E, non comprendendolo, non possono insegnarlo.
    Una classe di allievi mi ricorda La parabola dei ciechi di Bruegel in cui sarebbe il professore il primo cieco, quello che conduce i seguenti.
    Michel Bréal diceva: «Un professore è un uomo che insegna quello che non sa» (riferito dal figlio Auguste).
    Quanto è penoso vedere dei veri artisti dedicare una parte della loro fatica ad aiutare quelli che non possono camminare da soli. Riescono soltanto a fabbricare bastoni per ciechi per permettere a uomini, che anch’essi potrebbero utilizzare meglio la loro attività, di fare a tentoni un’opera inutile.
   Chi ha veramente qualcosa da dire vi è spinto dalla sua emozione, che lo porta a realizzare la sua opera, in rapporto con le sue individuali qualità.
    Renoir aveva quindi ragione di dire: «Chi, dopo averla girata per tre mesi contro il muro, non sa trovare cosa manca nella sua tela, non ha bisogno di fare pittura».

[...]

    La mia educazione è consistita nel rendermi conto dei diversi mezzi d’espressione del colore e del disegno. L’educazione classica mi ha portato naturalmente a studiare i maestri, ad assimilarli quanto più potevo considerando sia il volume, sia l’arabesco, sia i contrasti, sia l’armonia, e a riportare quelle riflessioni nel lavoro dal vero, finché mi sono reso conto della necessità di dimenticare il mestiere dei maestri o piuttosto di comprenderlo, ma in modo tutto mio. Non è questa la regola per ogni artista di formazione classica? Poi vennero la conoscenza e l’influenza delle arti orientali.

[...]

    Riassumendo, io lavoro senza teorie. Ho soltanto coscienza delle forze che adopero: vado avanti, spinto da un’idea che conosco veramente solo man mano che si sviluppa, mentre il quadro procede. Come diceva Chardin: «Gliene metto ancora [o gliene tolgo, perché io ne raschio via gran parte] finché non sta bene».
    Fare un quadro sembrerebbe logico quanto costruire una casa, se si andasse avanti con dei buoni princìpi. Il lato umano, non c’è da occuparsene. O lo si ha o non lo si ha. Se lo si ha, esso colora l’opera nonostante tutto.




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Da Scritti e pensieri sull’arte, raccolti e annotati da Dominique Fourcade, traduzione di Mimita Lamberti, Abscondita, Milano 2003, pp. 128-129 e 131.

mercoledì 9 novembre 2011

Fabio Pusterla




Caro Gabriele, 

ti avevo promesso qualche breve considerazione da indirizzare ai "giovani". Ci provo, con tre ordini di idee a prima vista antitetici.
Li scrivo qui di seguito, poi vedi tu se hanno senso.

Un abbraccio

fabio



1. Quando ero molto giovane, forse non guardavo con grande attenzione gli occhi di tre smunte figure femminili, che si chiamano di solito Umiltà, Pazienza, Modestia. Mi davano un po' fastidio, così silenziose com'erano. Ma credo che loro fossero più caparbie e più furbe di me, e più capaci di aspettare; così non sono scappate, anche se le trattavo forse male; e, più tardi, mi hanno aiutato molto.

2. Una volta, in una poesia, ho immaginato che fossero mio padre, e quelli come lui, della sua età, a dare consigli a me. Dicevano: "Diffidate / d'ogni risposta. Con fiducia e sospetto / riscattateci. Capite anche per noi, se lo potete". Tutto sommato, non vedo perché chi è giovane oggi non debba fare qualcosa del genere nei nostri confronti.

3. Un'altra volta mi ha scritto un poeta anziano, saggio e anarchico, a cui avevo inviato un mio libretto, credo. Mi diceva: "Le auguro di potersi perdonare. Non di dimenticare, questo mai; ma di perdonare se stesso". Mi è parso un consiglio misteriosamente eccezionale. 




Bruno Migliorini




    Accanto ai composti dei tipi usuali che anch’essi si accrescono (accalappiacani, pesalettere, schiaccianoci, ecc.), se ne hanno molti altri di vari tipi, specialmente nelle scienze (parolibero, Marinetti; avifauna, ecc.).
    Oltre alle molte voci nuove che sono arrivate più o meno facilmente, più o meno ampiamente a entrare nell’uso, se ne potrebbero citare migliaia di altre che hanno avuto una vita momentanea o più o meno breve: scimmietà, scimmiologo (Tommaseo), monumentare, manzonicidio (Carducci), empicornici «pittore», spulciacodici «erudito» (Dossi), nientarchia (Gandolin), massiccità (Fogazzaro), capolavorare, capolavorazione (D’Annunzio), prosatoio (D. Mantovani), studianaio (studio + granaio: così chiamava il Fucini il suo studio), ecc.
    Di parecchie parole si conosce l’autore, sia di quelle scientifiche e tecniche che di quelle letterarie o politiche: sappiamo per es. che ptomaina è stato coniato da F. Selmi, che bimetallismo è dovuto a E. Cernuschi, che paesanità è stato foggiato da Carducci; guerrafondaio è dovuto a L. A. Vassallo (Gandolin) e forcaiolo a L. Bertelli (Vamba). Di altro si conosce chi le ha introdotte: velivolo nel senso di «aeroplano» da D’Annunzio, congeniale da Croce, ecc.



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Dalla Storia della lingua italiana.

Natalino Sapegno





    La forma della novella boccaccesca è condizionata, dall’indole dello scrittore e dall’animo con cui esso si accingeva al racconto, è tutt’uno anzi con quest’animo e con quest’indole, che si possono cogliere appieno solo nel suo raccontare, nel modo di lavorare un soggetto e trarne una novella, nel come dispone in una certa determinata e inconfondibile maniera una trama, che potrà essere una storia già letta o un aneddoto storico, un racconto tradizionale o una sua immaginosa invenzione.
    Il presupposto che più condiziona il novellare del Boccaccio è quel suo modo distaccato di porsi di fronte alla vita, quella sua immaginazione di un idillico mondo di giovani tra cui le cento novelle del libro vengono narrate: ancora una volta la cornice ci appare non un’invenzione estrinseca, ma la forma naturale e come simbolica di un modo di sentire l’arte e la vita.
    Il Decameron è essenzialmente racconto; e il quieto adagiarsi dei giovani nel pieno meriggio, quando il sole è già alto «nè altro s’ode che le cicale su per gli ulivi», quel raccontare a che il tempo trascorra più lieto, determina un narrare riposato e pacato, in cui le storie si snodano lente, con un soffermarsi compiaciuto su ogni particolare che accresca il diletto, con un lento fluire di musicali periodi che s’indugino ad accarezzare il fantasma, a dipingere a tratti larghi figure ed azioni di uomini.
    Si aggiunga a questo il carattere del Boccaccio, intelletto essenzialmente lucido e chiaro, non offuscato da passioni o da pregiudizi, desideroso di tutto vedere e di tutto spiegarsi; ed ecco allora l’impressione che dà una sua pagina, di un occhio limpido ed attento che osservi con attenzione serena e su tutto si indugi con la stessa cura amorosa.
[...]


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Dalla Antologia della storia e della critica letteraria, vol. I, Dalle origini al Quattrocento.

martedì 8 novembre 2011

Renato Serra





Giovanni Pascoli


    Se ci chiedessero, chi è costui?, ognuno di noi pensa che non sarebbe troppo imbarazzato a rispondere. Abbiamo letto i suoi libri e conosciamo di lui tutto quello che è possibile conoscere di un uomo: i casi della vita e le qualità dello spirito, le abitudini, i gusti, gli affetti, i sogni, quello che accade giorno per giorno nella sua piccola casa e quel che gli passa ad ora ad ora per il capo. Pare che di pochi soggetti sapremmo parlare così copiosamente e così famigliarmente, come di questo.
    Ma se chi ci aveva domandato, dopo tante nostre parole e notizie, ancora non fosse contento e volesse una risposta netta, di quelle che definiscono un uomo e fermano una volta per tutte il suo profilo, il carattere, la famiglia di spiriti a cui appartiene, allora io credo che pochi saprebbero rispondere in modo da soddisfare se stessi e chi li sta a sentire.
    Perché, in quanto al Pascoli, c’è chi lo ama molto, e chi non lo può soffrire, c’è chi, partecipando dell’un sentimento e dell’altro, resta combattuto e sospeso; e corrono anche intorno a lui molti giudizi e formule che rappresentano più o meno vivamente queste disposizioni varie degli animi; ma, se si guarda bene, una che sciolga interamente il nodo di tante contraddizioni e dubbi che dividono la gente, una che ci dia conto chiaro del fatto suo, non si trova.
    Però io non intendo di fare una descrizione minuta dell’uomo e dell’opera; che sarebbe un ripetere quello che tutti sanno e che di per sé non importa altro che poco; ma come se a me avessero indirizzata quella domanda, chi è?, cercherò di rispondere. E porrò mente non alla persona di lui, sì all’arte.
[...]



György Lukács





Sembra ovvio, addirittura banale, ma occorre dirlo fin dall’inizio: il tipo dominante di scrittore e di critico si è gradualmente modificato nel corso della decadenza del capitalismo; di conseguenza si è mutato anche il rapporto tipico tra scrittore e critico.
    Sembra altrettanto ovvio, e persino banale – eppure occorre ripeterlo ogni volta – che il movente principale di questa deformazione è la divisione capitalistica del lavoro. Essa ha trasformato lo scrittore ed il critico in specialisti, togliendo loro quella universalità e quella concretezza di interessi umani, sociali, politici e artistici che contraddistinsero la letteratura del Rinascimento e dell’illuminismo, la letteratura di tutti i periodi che hanno preceduto e preparato una rivoluzione democratica; essa ha infranto per entrambi l’unità dinamica dei fenomeni della vita, sostituendola con «campi» circoscritti (arte, politica, economia ecc.), separati l’uno dall’altro e privi di relazioni tra loro, che si presentano alla coscienza o fissati nella loro separatezza o unificati in pseudosintesi astratte e soggettive (razionalistiche o mistiche).
    È infine ovvio che tutto ciò si riferisca alla corrente principale dello sviluppo degli ultimi decenni. La lotta condotta da alcuni notevoli umanisti contro la totalità di questi fenomeni – una lotta socialmente vana nell’ambito del capitalismo reazionario, ma molto utile sul piano ideologico – non fa altro che sottolineare la necessità dello sviluppo complessivo.
    Sia gli scrittori che i critici diventano dunque degli specialisti che operano nel campo specifico loro assegnato dalla divisione del lavoro. Lo scrittore ha fatto della sua interiorità un mestiere. Ed anche quando questo mestiere non porta al completo adattamento alle esigenze quotidiane del mercato librario capitalistico, come accade per la maggioranza degli scrittori, anche quando alcuni di essi manifestano soggettivamente una ostinata opposizione contro il mercato librario e le sue pretese – l’atteggiamento dello scrittore verso la vita e, quindi, verso l’arte, necessariamente si deforma e si impoverisce.
    Nel momento in cui lo scrittore, che si trova artisticamente all’opposizione, fa della letteratura un fine in sé, ponendo polemicamente in primo piano l’autonomia della letteratura, vengono trascurati i grandi problemi della «rappresentazione» e della «formazione», quei problemi, cioè, che nascono dal bisogno sociale di una grande arte, dal bisogno di una riproduzione comprensiva e profondamente poetica delle tendenze generali e costanti dell’evoluzione umana. E al loro posto subentrano questioni da laboratorio, concernenti la tecnica espositiva immediata.
    Con l’avanzare di questo processo, aumenta il carattere artigianale, tecnico e soggettivo di queste questioni, ed esse distolgono sempre più dai grandi problemi universali della letteratura, considerati sia dal punto di vista sociale che da quello artistico. La resistenza che la realtà capitalistica oppone all’arte annulla le differenze tra i generi, e le annulla anzitutto mediante il carattere anti-artistico della nuova materia di vita, vinto finora soltanto da pochi scrittori che hanno acquisito la massima coscienza dei problemi dell’arte. D’altra parte solo pochi ostinati sono in grado di resistere a tutti gli allettamenti offerti dalla realtà capitalistica. Terze pagine, regie teatrali e cinematografiche, rotocalchi – tutto ciò contribuisce, più o meno intenzionalmente, a confondere il senso di un’arte autentica. Scrittori che producono, a partire dal medesimo spunto, romanzi d’appendice, film, drammi e libretti d’opera perdono inevitabilmente qualsiasi sensibilità per una espressione autentica e per una rappresentazione artistica adeguata. Scrittori che abbandonano i loro prodotti a registi cinematografici e teatrali, perché diano loro l’ultima mano, che si abituano alla consegna di «semilavorati», che arrivano a teorizzare la legittimità di una simile praxis, tanto contraria ai fini dell’arte, non possono certo rivivere interiormente i veri problemi estetici.
    L’ironia storica dello sviluppo artistico durante il capitalismo si rivela nel fatto che molti scrittori che si oppongono con sincerità e intelligenza alla banalizzazione mortale operata dall’esercizio capitalistico dell’arte, affrettano, con le loro teorie o con la loro praxis artistica, il processo di progressiva dissoluzione delle forme che esso promuove. Parlando convintissimi – con una spregiudicatezza che rasenta il paradosso – della loro soggettività, dei loro stati d’animo, dei loro problemi espressivi puramente individuali, essi vorrebbero contrastare il cammino al processo di brutale livellamento e di crescente impoeticità della letteratura borghese. E tuttavia ciò che essi obiettivamente ottengono, tanto nella teoria che nella praxis, è un ulteriore affossamento delle forme poetiche: una anticipazione «profetica» delle tendenze letterarie che saranno di moda qualche decennio (o solo qualche anno) più tardi, un’anticipazione, cioè, di un nuovo genere di livellamento e di svuotamento delle opere letterarie.



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Da Lo scrittore e il critico, in Scritti di sociologia della letteratuta, Mondadori, Milano 1976. Traduzione di Giovanni Piana.

Albert Einstein





    Le leggi generali della natura debbono potersi esprimere mediante equazioni che valgano per tutti i sistemi di coordinate, cioè che siano covarianti rispetto a qualunque sostituzione (covarianti in modo generale).
    È chiaro che una teoria fisica la quale soddisfa a questo postulato soddisfa anche al postulato della relatività generale. Infatti la somma di tutte le sostituzioni include in ogni caso quelle che corrispondono a tutti i movimenti relativi dei sistemi tridimensionali di coordinate. Che questo bisogno di covarianza in modo generale, che porta via dallo spazio e dal tempo l’ultimo avanzo di obbiettività fisica, sia una necessità naturale, si vedrà dalla seguente riflessione. Tutte le nostre verifiche spazio-temporali si riducono invariabilmente a una determinazione di coincidenze spazio-temporali. Se, ad esempio, i fenomeni naturali consistono esclusivamente del moto di punti materiali, allora in definitiva nulla si potrà osservare tranne l’incontro di due o più di questi punti. Inoltre i risultati delle nostre misurazioni non sono nient’altro che verifiche di certi incontri di punti materiali di nostri strumenti di misura con altri punti materiali, o coincidenze tra le lancette di un orologio e punti sul quadrante dell’orologio, e punti-eventi osservati che cadono nello stesso posto e nel medesimo istante.
    L’introduzione di un sistema di riferimento non serve ad altro scopo che a facilitare la descrizione della totalità di tali coincidenze.




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Da La teoria della relatività.

lunedì 7 novembre 2011

Francesco De Sanctis





La poetica del Tasso è nelle sue basi essenziali conforme a quella di Dante. Lo scopo della poesia è per lui il «vero condito in molli versi», come era per Dante il «vero sotto favoloso e ornato parlare ascoso». Il concetto religioso è anche il medesimo, la lotta della passione con la ragione. Passione e ragione sono in Dante inferno e paradiso, e nel Tasso Dio e Lucifero, e i loro istrumenti in terra Armida e la celeste guida di Ubaldo e Carlo. L’intreccio è tutto fondato su questo antagonismo, divenuto il luogo comune de’ poeti italiani. L’Armida del Tasso è l’Angelica del Boiardo e dell’Ariosto, salvo che il Boiardo affoga il concetto nella immensità della sua tela, e l’Ariosto se ne ride saporitamente, dove il Tasso ne fa il centro del suo racconto. Questo, che i critici chiamavano un episodio, era il concetto sostanziale del poema. Omero canta l’ira di Achille, cioè canta non la ragione, ma la passione, nella quale si manifesta la vita energicamente. Le sue divinità sono esseri appassionati, Giove stesso non è la ragione, ma la necessità delle cose, il fato. Virgilio s’accosta al concetto cristiano, togliendo il pio Enea agli abbracciamenti di Didone. Pure, poeticamente ciò che desta il maggiore interesse non è il pio Enea, ma l’abbandonata Didone. Nella leggenda cristiana il paradiso perduto e il peccato di Adamo sono argomenti epici, ne’ quali erompe la vita nella violenza de’ suoi istinti e delle sue forze. Nella passione e morte di Cristo l’interesse poetico giunge al suo più alto effetto tragico, perché è il martirio della verità. In Dante questo concetto preso nella sua logica perfezione produce l’astrazione del paradiso e l’intrusione dell’allegoria, come nel Tasso produce l’astrazione del Goffredo. Si confondeva il vero poetico, che è nella rappresentazione  della vita, col vero teologico o filosofico, che è un’astrazione mentale o intellettuale della vita. L’Ariosto se la cava benissimo, perché canta la follia di Orlando, e quando viene la volta della ragione volge il fatto a una soluzione comica e piccante, mandando Astolfo a pescarla nel regno della luna. Il Tasso vuol restaurare il concetto nella sua serietà, e mirando a quella perfezione mentale, gli esce l’infelice costruzione del Goffredo e la fredda allegoria della donna celeste.
Non è meno errato il suo concetto della vita epica. Ciò che lo preoccupa, è la verità storica, il verisimile o il nesso logico, e una certa dignità uguale e sostenuta. E non vede che questo è l’esterno tessuto della vita, o il meccanismo, il semplice materiale con appena la sua ossatura e il suo ordine logico. Il suo occhio critico non va al di là, e quando il poeta morì e sopravvisse il critico, esagerando questi concetti astratti e superficiali, guastò miseramente il suo lavoro, e ci die’ nella Gerusalemme conquistata di quella ricca vita il solo scheletro, il quale, perché meglio congegnato e meccanizzato, gli parve cosa più perfetta.
Ma il Tasso, come Dante, era poeta, ed aveva una vera ispirazione. E la spontaneità del poeta supplì in gran parte agli artifici del critico.




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Dalla Storia della letteratura italiana.

domenica 6 novembre 2011

Grazia Cherchi





Recensioni come?


    Si è tornati di nuovo, in questo periodo, a discutere della nostra critica letteraria (chissà perché non si discetta mai, invece, di quella d’arte o cinematografica o teatrale, quasi fossero esenti da magagne). Non aggiungendo granché, peraltro, al già detto. Il peso delle recensioni sull’acquisto dei libri resta scarso, quando non irrilevante: il pubblico dei lettori pare infatti aver individuato il vizio di fondo dei critici militanti, cioè il loro essere, nella gran parte, alle dipendenze dell’industria culturale. Si spera di non sentirlo più proclamare con l’aria di aver fatto una grossa scoperta: c’è di che ululare dalla noia.
    Ma, a parte il fatto che ci sono ancora alcuni recensori, diciamo meglio cronisti letterari (non tanti: non oltre, temo, le dita di una mano), che sono indipendenti (da ogni medium) e di qualità (e le due cose paiono andare di pari passo), mi interessa qui soffermarmi su un punto nodale, che viene tenuto in sordina nelle polemiche in corso: come dovrebbe presentarsi una recensione per essere di qualche utilità al lettore (alludo a quelle, inevitabilmente brevi, che appaiono sui quotidiani. Quelle sulle riviste meriterebbero un discorso a parte, anche questo fitto di dolenti note).
    Prendo spunto da un pezzo di Geno Pampaloni (che è uno delle dita della mano, con l’unica pecca di privilegiare troppo, nei romanzi di cui si occupa, le note di speranza e di conciliazione, a scapito di tonalità più disperate) apparso sul mensile “L’Indice” dello scorso febbraio. Cito dalla conclusione: “L’arma segreta di cui dispone il cronista, o se si vuole l’arte del recensore, è la scelta delle citazioni... Un recensore si valuta, a mio parere, dalla scelta, dal florilegio, dal prelievo delle citazioni attraverso le quali il cronista dà conto della sua lettura. E al tempo stesso mette il lettore nella condizione di giudicare egli stesso se l’interpretazione del cronista è convincente o arbitrariamente personale”. Giustissimo.
    E oltre alle citazioni, a me sembra altrettanto indispensabile informare sinteticamente (lo spazio è quello che è) sul contenuto del libro, trama o plot che dir si voglia (la sua assenza dà adito ai più biechi sospetti: il libro è stato veramente letto da cima a fondo?). Cui seguirà, ma già dovrebbe emergere dalla trama inframmezzata di citazioni, il giudizio, che sarà, inevitabilmente, impressionistico, dettato dall’intuito, dal gusto e dall’esperienza: cos’altro mai potrebbe essere? (Anche su questo punto ha ragione Pampaloni.) Il tutto scritto in modo chiaro, non certo da addetti ai lavori che ammiccano tra di loro per l’infelicità dei più. La recensione ispirata a questi criteri sarà un po’ vecchiotta, di stampo decisamente tradizionale, ma mi pare sia l’unica che renda un servizio al lettore, fornendogli i motivi per andarsi a leggere il libro o per evitare di farlo.
[...]
                                 Panorama, marzo 1989




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Da Scompartimento per lettori e taciturni, Feltrinelli, Milano 1997.

Giuseppe Pontiggia





Cesare e la grammatica del potere


   Di Cesare, preferito tra gli autori latini, diceva G.B. Shaw che «quella sua osservazione che tutta la Gallia è divisa in tre parti, quantunque né interessante né corrispondente a verità, è almeno intelligibile».
   Sembra una battuta riduttiva, mentre è una intuizione feconda. Che cosa c’era dietro la parola «Gallia» per Cesare che la percorreva con i suoi soldati? Foreste, fiumi, ghiacciai, agguati, stragi. Ma che cosa diventa nell’attacco dei Commentari? Una terra divisa in tre parti. L’intelligibilità del linguaggio è ottenuta attraverso una semplificazione vertiginosa dell’esperienza e presuppone il segreto dello stile di Cesare: la intelligibilità del mondo.
   Tutto in lui appare semplice, preciso, chiaro, oggettivo.
   L’uso della terza anziché della prima persona, già adottato da Senofonte nell’Anabasi con finalità narrative, acquista nella sua pagina la violenza visionaria dell’autorità. Frontone definiva «imperatoria» la sua scrittura e Marco Aurelio confessava di sentirsene come afferrato con gli artigli. La intelligibilità del mondo rinvia infatti a una volontà indomabile di dominio sugli uomini e sulle cose, a una grammatica del potere.
   Essa si riflette persino in quel trattato teorico Sulla analogia (Cesare lo compose nel 54 a.C., durante il passaggio delle Alpi) dove anteporrà la regola alle anomalie dell’uso e consiglierà di evitare i vocaboli rari e insoliti come si evitano sul mare gli scogli. Per questo non fugge le ripetizioni e se Livio definirà il Reno tredici volte come flumen e sei volte come amnis, lui non si scosta mai da flumen, perché nella scelta definitiva della parola appropriata riconosce, nel De analogia, il suggello dello stile.

   Affidato alla competenza retorica e storica di Adriano Pennacini, il volume comprende anche i Commentari della guerra civile, dove l’incalzare degli eventi politici e militari trova un correlativo nella necessità di uno stile rapido e balenante. E vi sono inclusi i testi dei continuatori, che completano l’epopea della Gallia e compendiano le guerre di Alessandria, d’Africa e di Spagna. Immensa però è la differenza delle emozioni. Cesare ci mostra che la memorabilità non è negli eventi e neanche nelle parole, ma nel loro incontro.



Cesare, Opera omnia, a cura di A. Pennacini, traduzioni di A. La Penna e A. Pennacini, commenti di M. Faraguna, A. Garzetti e D. Vottero. Torino, Einaudi, 1993.

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In I contemporanei del futuro, Mondadori, Milano 1998.

Roberto Longhi





 








Piero della Francesca, Ritratti di Battista Sforza e di Federico da Montefeltro, 1465 ca., Galleria degli Uffizi, Firenze.




   Piero dei Franceschi (opera dal 1440 al ’90 circa). Immaginate le forme appianate e i delizianti colori di Paolo Uccello trasportati in iscala monumentale e solenne: sopprimete i residui dell’intonazione  gotica di fiaba notturna ancora frequenti in Paolo Uccello e intonate anzi ogni superficie alla luce diurna di Domenico Veneziano ma resa più chiara più meridiana, più plein-air, e avrete Piero dei Franceschi; che giunge per tal modo, ancora vivo il suo precursore, a dare alla sintesi prospettica un valore classico immutabile assoluto.
   Qualche esempio, subito. Ecco i due ritratti (un dittico nuziale) di Federigo da Montefeltro e di Battista Sforza agli Uffizi. Egli era obbligato alla scelta del profilo (i due coniugi dovevano guardarsi) e il profilo si rannodava facilmente a tendenze lineari, tanto più quando fosse accentuato come in questi modelli, e tuttavia quale senso struttivo di forme regolari anche nel Federigo, nella scelta del berrettone tondo, ne’ piani del viso, nel declivio poderoso del mento, nell’immobile torreggiare del busto sul paesaggio improvvisamente basso e lontano! Anche la luce serve a regolarizzare la forma cosicché due piccoli porri del duca si tramutano in perline isolate più preziose di quelle della collana della duchessa, aderenti per miracolo all’epiderma, ognuna portando allato la sua piccola ombra solare! Ed è bene l’intonazione maravigliosamente solare e a piombo nella forma che incastona le forme vicine sulle forme lontane ad ottenere in totale l’effetto di superficie coloristica in tutto il quadro. Sull’azzurro scialbato del celo si distendono allora le due fasce tropicali del rosso di brique del berrettone e del corsetto alternate dall’oro pallente del viso sotto la zona caldissima dei capegli d’ebano.




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Da Breve ma veridica storia della pittura italiana, Rizzoli, Milano 1994, pp. 76-77.