lunedì 12 settembre 2011

Un inedito di Alberto Bertoni




In treno


Coi treni ho un rapporto controverso. Anzi, dopo aver evitato per una premonizione dell’ultimo momento la strage del 2 agosto 1980, a Bologna, il treno lo prendo solo verso Roma e molto, molto di malavoglia. Non era così da bambino, quando mi facevo accompagnare alla Stazione grande di Modena a veder sibilare i settebelli, trattenendo un minuto il respiro annientato dall’impeto di quel vento improvviso, e la voglia di tuffarmici dentro. Per di più, ho sempre abitato dirimpetto a uno scalo minore, la Stazione piccola, destinato ai trenini per Sassuolo. E lì dentro giocavo, certi giorni di primavera dei primi Sessanta, tra vagoni abbandonati, binari morti, depositi misteriosi e inaccessibili, traversine consunte dalle quali spuntavano sterpi, fili d’erba e sassi odorosi di catrame o di ferro. Mi accompagnava la sensazione di stare in bilico sulla prateria, nel buco di questa pianura che penso da sempre infinita. Di lì a non molto, verso i dieci anni, ho sentito parlare la prima volta di Fossoli. E ha cominciato in me a scavare, molto prima delle mode e dei bilanci secolari, il tarlo di Auschwitz: prima di tutto il resto, un’esperienza ferroviaria priva di ritorno, della quale era stato senz’altro colpevole – in quanto testimone muto – anche qualche ramo della mia discendenza, capostazione, casellante o semplice passante che aveva osservato, un mattino qualunque, quei vagoni attraversare la linea dell’orizzonte, dal cortile o dalla strada di casa verso nord.