mercoledì 7 settembre 2011

Un inedito di Alberto Bertoni



 
Letterina alla mia generazione


Ma verranno altri giorni di pioggia, altre falesie da sfidare e migliaia di unghiette di dio ci feriranno, noi del ’55, il cuore impoverito, la mente che decade: noi che senza mai diventare adulti siamo di colpo vecchi e noi che il nostro unico obiettivo è scivolare, per guardarli dal basso, gli ostacoli più ardui. Anche se qualcuna, un giorno o l’altro, dovrà pure spiegarmi cosa vuol dire “adulti” nel primo mondo contemporaneo occidentale: praticare gli acquisti più scaltri, essere un top troppo presto scavalcato o insegnare a dei figli straviziati la correttezza politica e animale?


La morte, ribatti, in quanto fine di tutto è anche la fine del dolore, del tempo logorato di ogni giorno, l’abisso spalancato nel respiro. La morte è il riposo desiderato, l’annichilirsi di ogni corpo, con tutto il suo peso, la cosa, la materia. E la resurrezione? ti interrompo: ma la resurrezione è solo tregua, spazio vuoto, la salvezza di una particola di vita, briciola o nervo, davanti a questo muro.


Non la morte, ma i morti mi raggiungono oggi e mi abitano, come padroni delle notti. Sono in Scozia e cammino lungo il fiume Black Water, Acqua Nera, uno di quei rivoli da niente che poi esplodono in un fiordo interminabile, ali di farfalla capaci di provocare a migliaia di chilometri un tornado.

Non sono solo e percorro un sentiero erboso: alla mia sinistra scorre l’acqua, sulla destra il retro di una fila di case, qualcuna elegante, qualcun’altra solo semplice rimessa o accozzaglia di rottami. È l’ora dopocena, precoce per le abitudini italiane, ma di luce già un po’ incerta, così a nord, quasi all’altezza della Norvegia. D’improvviso, in simultanea, accadono due cose: un cane border collie si avventa, a difesa del suo pezzo di giardino, e abbaia, abbaia violento, fatto strano perché il timbro fondo e calmo della mia voce basta spesso da solo ad acquietarli, i cani.

Dopo che l’ho chiamato, invece, questo fissandomi latra e salta come un pazzo fino quasi a varcare il suo recinto. Allora mi giro per continuare il sentiero e in quel momento preciso dici di aver freddo, che vuoi tornare indietro. Ma è proprio lì che guardo meglio e pochissimo più avanti sento che l’aria esplode in un buco di buio: vero, metafisico, assoluto. E da quel buco viene gente, molta che non vedo ma che avverto e neanche per sbaglio ci salto, io stasera lì dentro.

Mi volto, in silenzio, e torniamo indietro, senza più il piglio di chi sfida anche un implacabile acquivento. Di buon grado, muto, vado verso l’albergo, ma qualcosa è accaduto, il cane è ancora più inquieto e adesso quelle larve (fibre vibranti appena più chiare, voci scomposte, gutturali, e strappi nella pelle del silenzio) mi sono penetrate fino in fondo: e adesso sono io, solo io, il pozzo d’Acqua Nera, l’istinto omicida, un senso di integrale sperdimento. Dopo, se sei capace, passala tu la notte in questo stato.

Quando poi ritorno, l’indomani nello stesso luogo, il cane tace, è buono e quel tratto di sentiero è scuro come tutto attorno, ma non è un pozzo e non è buio. Allora mi accorgo che dall’altra parte del Black Water, sulla destra, all’altezza del buco, non ci sono più rottami, rimesse, tane di conigli ma il cimitero, Vecchio e Nuovo appena separati da un muretto: e il posto, finalmente mi ricordo, si chiama Garve, giusto l’anagramma di grave, in inglese la tomba.