domenica 28 agosto 2011

Un articolo di Pier Paolo Pasolini

[ I giovani che scrivono]

È un anno che tengo una rubrica settimanale di diligenti articoli letterari. Vorrei parlarne. Non farne un consuntivo (che è sempre sentimentale e moralistico), ma trarne alcune considerazioni: anzi, due considerazioni.
In un anno non ho parlato nemmeno una volta dell’opera prima di un giovane. Posso eccettuare Andrea Valcarenghi (che ha scritto un ingenuo libro sulla propria esperienza contestataria) e l’equipe di Luigi Cancrini (che ha scritto un libro sulla tossicomania giovanile in Italia): ma si tratta di documenti o lavori sociologici, non di opere letterarie. Il più giovane letterato di cui ho scritto è il quasi trentenne Dario Bellezza: ma Il carnefice era il suo quarto libro (aveva già pubblicato un romanzo, L’innocenza, uno straordinario libro di versi, Licenze e invettive e un altro romanzo, assai bello, Lettere da Sodoma). Ciò che mi chiedo è questo: son io che non amo occuparmi dei giovani o non ci sono giovani di cui vale la pena occuparsi? Ho dato una rapida occhiata all’enorme congerie di volumi che ho preso in considerazione in quest’annata di «diligenti articoli letterari», e mi sono reso conto, che non solo non sono usciti libri di giovani di cui valesse la pena occuparsi ma addirittura non sono usciti libri di giovani. L’elenco di opere pregevoli di trentenni, che potrei fare, è tutto qui: Procida di Franco Cordelli (Garzanti), Cani sciolti di Renzo Paris (Guaraldi), Il supplente di Fabrizio Puccinelli (F.M. Ricci), Terrore piccolo borghese di Anna Maria Guerrieri (F.M. Ricci). Quelle dei ventenni sono ancora più poche ed esili. Ciò mi ha allarmato. Non sono «pensoso» delle sorti della letteratura, mi nego a inchieste giornalistiche o a congressi che abbiano questo tema. Sono impaziente e sicuramente anche un po’ «aristocratico» di fronte al problema della letteratura come problema sociale. Eppure nel momento in cui mi sono reso conto che quest’anno – e probabilmente in tutti questi ultimi anni – non è uscita un’opera prima importante di un giovane, e che addirittura, i giovani in genere non scrivono più opere letterarie – ho provato un senso di panico, un’angoscia personale.
L’istinto consolatore mi ha poi fatto correre col pensiero a dei manoscritti di giovani che ho qui a casa mia: una sceneggiatura, di alto livello intellettuale, dovuta a Sandro Gennari, e un bellissimo romanzo neocrepuscolare, atroce (Un borghese piccolo piccolo) di Vincenzo Cerami. Ho pensato inoltre a qualche gruppo di giovani che opera in provincia: per esempio, un gruppo di Cesenatico (che, ahimè, si è battezzato «Collettivo»), con una sua piccola rivista («Sul porto»), in cui, con i resti desolanti del linguaggio e della passione sessantottesca, c’è un ritorno non nostalgico, ma corposo, e realmente culturale, ai poeti degli anni Cinquanta. Ma tutto ciò è molto poco.
Non voglio comunicare in proposito la mia ambascia, ma piuttosto la mia impotenza a spiegare il fenomeno. Il mio agnosticismo, nella fattispecie, si identifica con tre spiegazioni polemiche: 1) La neo-avanguardia del quinquennio 1963-68 ha bloccato i giovani, che, per moda, hanno fatto dell’antiletteratura prima di fare della letteratura: si sono cioè autocriticati (e molto severamente) su una cosa che non hanno fatto, e di conseguenza hanno criticato gli altri per una cosa che non conoscevano. A causa di una tensione morale da «Club dei suicidi», e di un principio inderogabile fondato sul nulla, hanno rifiutato di esprimersi: ma tutto questo senza alcuno spirito, cioè, per esempio, nel completo oblio di «dadà»: e, in compenso, terroristicamente, con dietro delle miserabili ambizioni pratiche e arrivistiche. Questa formazione neo-avanguardistica dell’adolescenza ha impedito, e forse continua ancora a impedire, a molti giovani una vera e propria esperienza letteraria. Il loro è stato un apprendistato all’aridità e alla presunzione. E in pratica non hanno imparato a far nulla: ma senza nobiltà, però. Perché in tal caso, la mia critica, sarebbe qualunquistica, e lo saprei. 2) Il ’68 ha anch’esso, a sua volta, bloccato i giovani. L’intellettuale si doveva suicidare. La letteratura doveva avere una funzione ancillare e subalterna rispetto alla propaganda politica. Doveva essere strettamente utilitaristica, d’intervento. Chi non era d’accordo su questo era un traditore. E su questi temi, come su tutti gli altri, si doveva essere estremisti: e non importa se estremisti come gli estremisti di un secolo fa, descritti comicamente da Dostoevskij, per esempio. Quale giovane poteva avere il coraggio di opporsi, a fortiori da solo, a una così enorme, trionfale, terroristica corrente d’opinione che vedeva riuniti migliaia e centinaia di migliaia di giovani di tutto il mondo? Si è fatta certo, durante il periodo sessantottesco, un po’ di letteratura: ma ancora della letteratura neo-avanguardista. Mai confusione è stata più mostruosa e idiota. 3) Prima, dopo, al di sotto e al di sopra di tutto questo, c’è la cultura di massa e la civiltà dei consumi, che il Potere è andato macinando e preparando, nei primi anni Sessanta, passando ormai, oggi, su tutto come un rullo compressore. È questo Potere, che, in realtà, non sa più cosa farsene della Letteratura (che per lui è un residuo umanistico, come, in altro modo, la Chiesa, gli istituti morali tradizionali, con Patria e Famiglia, ecc.: insomma tutto il Passato). Di conseguenza, nell’irrisorio contesto letterario, l’avanguardia, prima, e poi su scala mondiale la Contestazione giovanile del ’68, hanno in realtà fatto il gioco di questo Potere. I giovani che avessero una vocazione letteraria, sono stati scoraggiati, deviati, annullati – prima dall’apprendistato neo-avanguardistico e poi dalla Contestazione – proprio, si direbbe, perché al Potere era indifferente che ci fossero o no dei letterati. Anzi, se questi letterati avessero dovuto essere per caso anche degli scomodi intellettuali, era meglio che non ci fossero affatto (che, cioè, l’autocritica neo-avanguardistica fosse andata fino in fondo nel ridurli a degli impotenti; oppure che l’estremismo gauchista li avesse realmente convinti tutti a suicidarsi).
La seconda considerazione che vorrei fare a proposito del mio anno di critica militante è la seguente. Quasi nessuno dei libri di cui mi sono occupato con particolare impegno, attribuendogli un reale valore, è stato recensito col rispetto e l’entusiasmo che io pensavo si meritasse, nelle pagine letterarie dei giornali. Su questo punto sono meno agnostico, e penso che le mie spiegazioni non siano tendenziose. Per la critica sì, vale, alla lettera, tutto ciò che ho detto a proposito dei giovani letterati.
[...]
Le terze pagine di tutti i giornali sono il trionfo del qualunquismo: i libri di cui si parla sono scelti casualmente – come appunto dei prodotti – un po’ secondo le regole del lancio industriale, un po’ secondo le regole del sottogoverno. Affastellati tutti assieme, e scelti senza il minimo rigore, tutto interessa in essi fuori che il loro valore e la loro autenticità. Interessa ciò che essi socialmente rappresentano, ecco tutto. Di un libro si parla perché la moda, la casa editrice, il direttore del giornale, la comune posizione letteraria o ideologica (ma in un senso puramente pratico e personale), vogliono che se ne parli. Verso un libro non si sente più non solo amore (l’amore disinteressato per la poesia), ma neppure interesse culturale. E ciò non accade solo nei critici giovani o di mezza età, ma anche negli anziani e nei vecchi.
Non è tutta colpa loro: cioè non è solo moralistica la mia accusa contro di loro. Infatti alle loro spalle si sta verificando non solo la dissoluzione del grande Dualismo (cultura di destra e cultura di sinistra, comunismo e cattolicesimo), ma la dissoluzione di una cultura e di un’epoca della storia (la cui ultima fase era stata caratterizzata da una sorta di egemonia marxista). Perduti i due poli di riferimento, che schematizzavano la critica, ma anche la obbligavano a compromettersi, a rendersi chiara, e, in qualche modo, appassionata e interessata ai valori autentici (che erano i soli che le servivano e avevano senso), sono successe la confusione e la frantumazione dovute alle esigenze di un mercato che, in questo campo, in Italia, è ancora arcaico malgrado il suo behaviorismo consumistico.

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«Tempo», 23 dicembre 1973. Poi in Descrizioni di descrizioni, a cura di Graziella Chiarcossi, Introduzione di Paolo Mauri, Garzanti, Milano 2006.

Intervista a Ferruccio Benzoni



Quando conoscesti Vittorio Sereni?


Quando ancora frequentavo il Liceo, a metà degli anni Sessanta, mi fu dato l’incarico di fare un tema sull’Europa, perché scrivevo bene in italiano. Io citai Sereni: «Europa Europa…». In quei momenti esistevano i Beatles, il suicidio di Cesare Pavese, e poi per me la meteora atroce di Pier Paolo Pasolini. Quei versi di Sereni io li sentivo profondamente. Cominciai a conoscerlo da allora.


Poi siete diventati amici. Che uomo era?


Timido, intransigente, ossessionato, di nostalgie e rossori da liceale o ex commilitone. Ricorderò per sempre la sua inquietudine, la sua scontrosa affabilità. E i silenzi, quei silenzi!… I suoi «sentimenti di colpa» nei riguardi della storia. Voglio qui pubblicamente alludere al suo sodalizio con René Char, di cui è stato il maggior traduttore, il grande poeta soprannominato Capitaine Alexandre durante la resistenza francese. Ecc. ecc.


A proposito di Char e del Vaucluse: so che tu e Sereni ci siete stati insieme e, penso, i ricordi che conservi saranno molti. Puoi rivelarcene uno?


L’appuntamento era «sul finire dell’estate» (cito Sereni). Per tre anni consecutivi (’80, ’81, ’82) sul finire dell’estate si andava in Vaucluse. Era una specie di patto d’amicizia, di tacita intesa. In Vaucluse tramite Vittorio ho conosciuto Char, ma, quale ricordo? …ad esempio che a Gordes ravvisammo in una turista tedesca, anzi, Vittorio ravvisò, nientemeno che Greta Garbo; seduti a un caffè stemmo in silenzio per un’ora ad adorarla, e lui, di tanto in tanto, interrompendo il silenzio, parlava della Greta cinematografica e di come quella sua generazione di poeti ne fosse stata folgorata, ad esempio il suo coetaneo Attilio Bertolucci.


Sei stato anche in altri posti con Sereni? Vi vedevate di frequente?


Sì, e ho visitato insieme a lui alcune città mito della sua vita e della sua poesia. Luino dove è nato. Milano dove abitava. Bocca di Magra (vedi Un posto di vacanza) tuttora abitata da Franco Fortini e un tempo da Elio Vittorini e, come si diceva prima, la Valchiusa, che egli aveva interiorizzato con felicità, Char o non Char. Perché Sereni era una persona fedele (la sua poesia lo rispecchia) ai luoghi e ai nomi. Non sono mai stato con lui in Egitto, altro luogo deputato, altro tòpos della sua vita e della sua poetica.


È nota la passione di Sereni per il football. Ne parlavate mai?


Sì, molto spesso. Era anche un modo per (al di là delle sue ritrosie) liberarci dai nostri lunghi silenzi. Tifava spudoratamente Inter e, guarda caso, abitava in via Paravia (quartiere San Siro) che è a pochi passi dallo stadio. Insieme abbiamo assistito ad alcune partite. Era un tifoso non per snob (troppi letterati ciarlano di calcio), ma passionale, enfatico, estremamente fazioso. Il suo amore per il calcio mutuato anche da quelle partite improvvisate tra prigionieri durante il periodo di prigionia. Ripenso Gli immediati dintorni.


Ungaretti, Saba, Montale, Bertolucci, Char, Seferis, per dire solo alcune delle personalità ricordate da Sereni nei suoi scritti. Ne parlava mai?


Mi ha parlato di tutti i poeti che tu mi hai citato; anche di altri. Ma in modo, come dire?, guardingo. Una eccezione per tutte: Saba. Parlando di Saba e di aneddoti della vita di Saba quasi si commuoveva, ne parlava insieme con ilarità e struggimento. Sono certo che l’ha amato molto.


Cosa pensava della sua poesia? E della tua?


Della sua poesia parlava di rado. Non tanto per quel «silenzio creativo» di cui hanno discorso i critici. Quel «silenzio creativo» altro non era che la pagina bianca sospesa tra ineffabilità e desiderio di perfezione. Quel silenzio per me corrisponde (alludo a una sua poesia) al colpo micidiale del figther che combattendo riesce a mettere k.o. un ostacolo, un avversario e/o avversità. Di me pensava, e della mia poesia, a un Saba, ma non a quello di Parole e Ultime cose; piuttosto al Saba di Trieste e una donna. In una lettera mi accostò anche, «per quanto diversissimi tra loro», a un Gatto e a un Pasolini.


A quale poeta ti senti più vicino?


Credo, per esempio, a Camillo Sbarbaro. Semmai lui preferiva la tempera e io la spatola, per immediate accensioni.


Fortini, nella presentazione a Notizie dalla solitudine, parla per te di un linguaggio e uno stile «disseminato di citazioni cancellate ma leggibili ancora». È solo un fatto letterario? Non si può parlare anche di una matrice sentimentale?


È una bella domanda. Io penso che letterariamente abbia ragione Fortini, perché come poeta mi sento di appartenere alla tradizione dei «maestri in ombra» (Sbarbaro, appunto) e, per dirla con Pasolini: «Io sono una forza del Passato...». Però c’è anche il momento sentimentale. Esiste una geografia interiore di nomi e di luoghi che vanno vengono ritornano come la marea nella risacca. Aisha, Ilse, la cagnetta Orazio, un tailleur azzurro che è irrimediabilmente mia madre; due stanghette in similoro che sono irreparabilmente mio padre; Sereni quando dico «È sepolto là sul lago l’amico.» …Luoghi, fedeltà, mappe e appuntamenti. Quindi hai perfettamente ragione se alludi a citazioni sentimentali, che posso pure dissimulare, camuffare, ma non posso non estorcere dalle mie verità segrete.


Credi che la parola ispirazione abbia ancora un valore?


È una domanda maliziosa. Ebbene, ancorché desueta, probabilmente la cosiddetta ispirazione esiste. Certo varia da poeta a poeta. Ma forse che oggi non esistono i bioritmi, valutando le prestazioni di un calciatore con il gel sui capelli che proprio non ci azzecca? Probabilmente esistono poesie più vive nel senso che in sé contengono altre poesie, o riuscitissime poesie nate morte, splendide e sterili allo stesso tempo.


A mio avviso la tua poesia presenta zone oscure, zone che il lettore può riempire o meno…


Non credo. Credo invece che la mia poesia implichi una complicità, una familiarità, una dimestichezza. Sto pensando a una Autobiologia (cito Giudici) probabilmente più spudorata e accorata.


Da diversi anni sei considerato uno dei poeti più significativi che abbiamo. Fortuna critica?


Fortuna critica; non tanto editoriale. Esistono dei poeti (miei coetanei) che pubblicano un libro ogni due anni, che si stroncano e recensiscono a vicenda. Non so come ci riescano. Io ho avuto dei lettori-critici come Orelli Raboni Porta Fortini Mengaldo Sereni e – ero più giovane – il nostro amico Renato Turci, Gatto e Pasolini. Lettori, come vedi, che possono avermi insegnato l’intransigente pazienza della poesia.


Se ti facessi una domanda sulla morte?


La morte è un po’, come dire?, una sorellastra di chi scrive. Gatto ha scritto «il vino dei poeti», ma a questo punto, non credi, potremmo stappare un’altra bottiglia…


Certo, ma non ho più domande. Vuoi formulartene una tu?


La donna che amo. Come vedi è qui al nostro tavolo. Non so per quanto, né per quale sortilegio.


Cesenatico, giugno 1990

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L’intervista a Benzoni apparve dapprima su “libere carte”, n. 1, luglio 1990, numero interamente dedicato a Vittorio Sereni, poi è confluita in Sereni e dintorni, Joker, Novi Ligure 2006.
g. z.

Cinque domande a Walter Galli



È del 1976 la pubblicazione del tuo primo libro La pazìnzia, un esordio non certamente precoce. Vuoi dirmi il perchè di quel ritardo, di quella attesa, se già nel 1951 erano apparse tue poesie sui fogli letterari?

Il libro uscì quando da una abbastanza lunga serie di verifiche e collaudi di lettori importanti mi parve di capire che poteva andare. Del resto erano anni – dal dopoguerra sino a tutto il '60 – in cui la poesia dialettale era una sorta di cenerentola, vivacchiava ai margini dell'attenzione delle riviste letterarie, dei critici e degli editori. Il titolo del libro è in un certo senso emblematico dell'aspetto di quel lavoro: paziente, solitario, di cui però non mi sono pentito; e poi si arriva sempre in tempo... Del resto la sua pubblicazione coincise con la straordinaria fioritura, proprio qui in Romagna, di voci poetiche di grande rilievo che oggi costituiscono la punta avanzata della poesia non solo dialettale.


La tua poesia sembra contraddire l'immagine stereotipa del poeta: un uomo che ambisce parlare di sé a se stesso, rinchiuso nella mitica torre d'avorio.

Spero di sì. Anche di fronte al bisogno di riflessioni o meditazioni, all'urgenza di decifrare i nodi esistenziali, di fare i conti con me stesso come per l'approssimarsi di scadenze improrogabili e temute, la mia scrittura mai si affida alle ciurmerie della bella parola che ipnotizza, frastorna e non lascia segni in chi ascolta. Spero che la mia poesia sia una sorta di diario, il giornale di bordo di questo navigare ignoto e difficile che è la vita, sul quale segnare e rileggere le tempeste e le bonacce, i porti ospitali e i naufragi.


Questa configurazione che mi dai della tua poesia motiva e chiarisce le scelte: la Valdoca, il dialetto. Vuoi precisare più a fondo tali scelte?

Era la Valdoca il grembo e il brulichìo di esistenze minime, dimesse, fuori dalla storia, senza voce, dove le provocazioni, gli insulti, le ferite che la vita non risparmia a nessuno e in nessun luogo, qui erano patiti e bestemmiati con segnali forti; e il dialetto, il veicolo della comunicazione: la loro lingua la mia lingua; lo strumento che mi permetteva di scandagliare meglio, di portare alla luce con più verità, impudicamente ma non impietosamente, le realtà più celate e rimosse di un mondo sommesso e sommerso. Ma soprattutto di ridirlo attraverso una scrittura di minimo scarto con l'oralità antica e quotidiana, quasi una registrazione in diretta, senza filtri o superfetazioni.


Nella tua poesia è riconoscibile una predisposizione all'epigramma: sintesi, battute fulminanti, finali improvvisi e taglienti, e soprattutto l'ironia che stempera la seriosità, l'acredine, la scurrilità, gli intenerimenti del dettato. È frutto del tuo incontro coi classici greci e latini o è qualcosa che ti è naturale?

Le “imitazioni” a cui tu fai riferimento [contenute sia in La pazìnzia che in Una vita acsé] richiederebbero un'indagine critica particolare che io non ho mai tentato di fare, né, penso, ne avrò mai la voglia. Posso solo dirti che il mio incontro con l'Anthologia Palatina e con Marziale avvenne un bel po' di tempo fa – verso il 1960 – quando già il mio lavoro aveva una propria originale fisionomia – quella stessa che ancora lo contraddistingue – per cui ritengo siano da escludersi lezioni o apprendistati esorbitanti da quei maestri. Si trattò semplicemente della scoperta di una affinità, di
una sintonia con un mondo sorprendentemente vicino e attuale nonostante la polvere dei secoli, e poi del desiderio e del piacere di giocarci attorno e dentro con la mia barbarica lingua: liberamente, spregiudicatamente fino all'irriverenza, allo stravolgimento.


Ho notato, in occasione di letture pubbliche delle tue poesie, partecipazione e interesse notevoli. Come giudichi un consenso non sorretto dal momento della riflessione? Ti crea perplessità o ti esalta siffatta unanimità da parte di una platea, in un certo senso provvisoria?

È indubbio che nella proposizione orale la poesia si accende e si esaurisce nell'effimero momento emozionale, scartando o limitando inevitabilmente quello della meditazione, che, al contrario, esige la lettura silenziosa e personale quale unica, sicura traccia che consenta una completa e non equivoca captazione dei valori – spesso in filigrana – contenuti nel testo poetico. Sono però convinto – deducendolo dall'autentico interesse e dalle capacità di discernimento dimostrati dal pubblico – che quella remora non pregiudica del tutto la comprensione globale del messaggio. Penso che l'intensità della fruizione in comune porti il singolo ascoltatore a rielaborare, probabilmente per un effetto di rifrazione, i possibili punti di meno agevole intendimento. Per cui non riterrei giustificabile nel poeta una altezzosità che lo portasse a sofisticare troppo sulla idoneità al recepimento del suo uditorio, o ad applicare tare a un consenso che si esplica in una sorta di comunione della e con la poesia, anche se il mistero viene celebrato nell'inusitato laico tempio di una piazzetta di paese.


Cesena, aprile 1990

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L’intervista a Galli apparve dapprima su "Libere carte", n. 0, maggio 1990, poi è confluita in Sereni e dintorni, Joker, Novi Ligure 2006.
g. z.

sabato 27 agosto 2011

Tre poesie di Ben Cami



Twee vissers in de stille morgen
Trekken ter visvangst. De Biesbosch
Licht voor hen zijn rustige nevels op
De vissen maken blaasjes in hun slaap,
De paling doet zijn lang lijf trillen
Diep in ’t goor.

Hebben ze alles mee? Het leefnet en het schepnet
Genoeg benzine, lijntjes voor de brasem
Lijntjes voor de voorn? En op hun tocht
Door de morgen die alleen voor vissers
Als een wonder opengaat,
Zuigen ze diep verheugd aan hun eerste sigaret.
Ze speuren naar de lucht, voorspellen
Zuidwestenwind en dat de vis zal bijten.



Due pescatori nel quieto mattino
Vanno a pesca. Il Canneto
Alza per loro le sue calme foschie
I pesci fanno bolle nel loro sonno,
L’anguilla fa tremare il suo lungo corpo
Nel profondo della gora.

Hanno preso tutto con sé? La nassa e il retino
Sufficiente benzina, le lenze per il branzino
Le lenze per il ghiozzo? E mentre passano
La mattina che solo ai pescatori
Si apre come un miracolo, aspirano
Dalla loro prima sigaretta con profonda gioia.
Scrutano l’aria, prevedono
Vento del sud e che il pesce abboccherà.



Daar heb je de reiger aan de overkant.
Hij heeft hen herkend, van ver al
En blijft rustig bij de zaak.

Soms schiet hij uit zijn slungelhouding wakker
Zijn slangehals recht als een hamersteel
Zijn snavel een wapen.
Aldus versteend staat hij een lange wijle,
En stoot toe.

Statig brengt hij zijn vis
Meters ver aan land, laat hem
Los, laat hem
Spartelen in ’t gras.

Zijn hals tussen opgetrokken vleugels
Een slordige S,
In treurende houding
Staat de reiger
Vóór zijn stervend ontbijt.



Ecco l’airone sull’altra sponda.
Li ha riconosciuti, già da lontano
E non si scompone.

A volte si sveglia dal suo portamento altero
Il suo collo lungo dritto come il manico di un martello
Il suo becco un’arma.
Così impietrito sta per un po’,
E colpisce.

Porta maestoso il suo pesce
Alcuni metri più in là sulla terra ferma, lo lascia
Libero, lo lascia
Dibattersi nell’erba.

Col collo tra le ali ripiegate
Un’abbandonata S,
In triste postura
L’airone sta
Davanti alla sua morente colazione.



Voor elke maaltijd moet de snelle snoek
Zijn jongste prestatie verbeteren.

Buiten adem slikt hij, en zinkt dan
Naar zijn groene grot van kruid.

Hij slaapt veel: een heerser.
Hij geniet dieper in zijn droom.

Eenmaal gevangen ligt hij verbaasd,
Haast zonder weerstand te staren.

Je slaat hem met een stomp voorwerp
Dood. Pas dan kijkt hij je aan.



Per ogni pasto il luccio veloce deve
Migliorare la sua ultima prestazione.

Deglutisce senza respirare, poi sprofonda
Verso la sua verde grotta di erba.

Dorme molto: un sovrano.
Gode più a fondo nel suo sogno.

Una volta preso rimane stupito,
A fissare quasi senza resistenza.

Colpendolo con un oggetto ottuso
Lo uccidi. Allora soltanto ti guarda.

Jean Robaey



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Il poeta fiammingo Ben Cami, nato a Durham in Inghilterra nel 1920 e morto a Aalst in Belgio nel 2004, è autore di tre libri di prosa e di otto raccolte poetiche. Le poesie qui presentate sono tratte da Dittico nordico, Bohumil, Bologna 2007. 

Una poesia di Rabindranath Tagore

Per molti giorni, per molte miglia,
con molte spese, per molti paesi,
sono andato a vedere i monti,
sono andato a vedere il mare.
Ma a due passi da casa,
quando ho aperto gli occhi,
non ho visto
una goccia di rugiada
sopra una spiga di grano.

P. Marino Rigon

Una poesia di Costantinos Kavafis

Manuele Comneno

L’imperatore Manuele Comneno
in un malinconico giorno di settembre
sente che la morte è vicina. Gli astrologi
di corte (i salariati) cianciano
che ha molti anni da vivere ancora.
Mentre parlano egli si ricorda
di vecchie abitudini devote
allora ordina che dalle celle dei monaci
gli portino vesti di chiesa,
che indossa, e si compiace di mostrare
un aspetto modesto da prete o da monaco.

Beati coloro che hanno la fede
e come Manuele Comneno, modestamente
finiscono avvolti nella loro fede.

Nelo Risi e Margherita Dalmàti

Una poesia di Emily Dickinson

No Rack can torture me –
My Soul – at Liberty –
Behind this mortal Bone
There knits a bolder One –

You Cannot prick with saw –
Nor pierce with Scimitar –
Two Bodies – therefore be –
Bind One – The Other fly –

The Eagle of his Nest
No easier divest –
And gain the Sky
Than mayest Thou –

Except Thyself may be
Thine Enemy –
Captivity is Consciousness –
So’s Liberty.




Nessuna ruota mi può torturare –
la mia anima – è libera –
questo scheletro mortale
è annodato a un altro più forte.

Non può lacerare la sega
né forare la scimitarra,
se sono due i corpi –
uno imprigioni:
l’altro volerà via.

Non è facile privare
l’aquila del nido –
in cambio del cielo,
così è per te

– se non ti sei nemico –
la coscienza libera e incatena.

Nadia Campana

Due poesie di Juan Gelman

El Jilguerido

El amado a la amada se parece. No da vergüenza ya la muerte, absorto jilguerido atado a su pasión.



La forma

Alma que ahora pensás: decí por qué en amor la soledad es forma de la luz.




Il cardellino

L’amato all’amata assomiglia. Non fa più vergogna la morte, assorto cardellino legato alla sua passione.




La forma

Anima che adesso pensi: di’ perché in amore la solitudine è forma della luce.

Laura Branchini

Una poesia di Federico Garcìa Lorca

Vuelta de paseo

Asesinado por el cielo
entre las formas que van hacia la sierpe
y las formas que buscan el cristal,
dejaré crecer mis cabellos.

Con el árbol de muñones que no canta
y el niño con el blanco rostro de huevo.

Con los animalitos de cabeza rota
y el agua harapienta de los pies secos.

Con todo lo que tiene cansancio sordomudo
y mariposa ahogada en el tintero.

Tropezando con mi rostro distinto de cada día.
¡Asesinado por el cielo!




Ritorno

Assassinato dal cielo
fra le forme che vanno verso la serpe
e le forme che cercano il cristallo
lascerò crescere i miei capelli.

Con l’albero di moncherini che non canta
e il bambino col bianco volto d’uovo.

Con gli animalini dalla testa rotta
e l’acqua lacera dei piedi secchi.

Con tutto quello che è stanchezza sordomuta
e farfalla annegata nel calamaio.

Contro il mio volto diverso d’ogni giorno.
Assassinato dal cielo!

Carlo Bo

venerdì 26 agosto 2011

Un “contraddetto” di Giovanni Raboni


Il best-seller non s’addice ai poeti


A quanto pare, dunque, in Inghilterra gli editori hanno trovato il modo di vendere i libri di poesia, e in un mercato generalmente tonificato emergono ormai anche i primi best-seller: dicono, per esempio, che una certa Wendy Cope sia arrivata, con due sole raccolte di versi, alla rispettabile cifra di 100.000 copie.
L’ipotesi che qualcosa di simile possa succedere, un giorno o l’altro, anche in Italia (non c’è nessuna ragione per dubitare che anche i nostri editori, volendo, siano perfettamente in grado di realizzare il miracolo) dovrebbe rallegrarmi, visto che anch’io faccio parte, e non proprio da oggi, della categoria.
A rischio di far la figura del bastiancontrario e dello snob, devo invece confessare che l’idea mi fa correre qualche brivido gelato lungo la schiena. Perché? Intanto perché penso che sarebbe un bel guaio, per la salute della loro anima e per la qualità del loro lavoro, se anche i poeti cominciassero a porsi il problema di piacere a un numero potenzialmente elevato di lettori anziché a se stessi e, tutt’al più, a qualche dozzina di amici conosciuti e sconosciuti.
Ma la ragione principale dei miei timori è un’altra. Bene o male, nel campo della poesia le quotazioni sono ancora quelle stabilite dagli addetti ai lavori; se ne può discutere, si può dissentire, restando tuttavia nell’ambito di un ragionamento critico. Ma cosa succederà quando anche le raccolte di versi scaleranno le classifiche? Chi potrà credere alla nostra buonafede se ci azzarderemo a mettere in dubbio la grandezza degli Umberti Eco, dei Luciani De Crescenzo, delle Susanne Tamaro della poesia (che salteranno fuori, c’è da giurarci, in un batter d’occhio) e ci permetteremo di anteporre loro qualche autore che invece (anche questo è sicuro) continuerà a vendere le tradizionali ottocento o mille copie? Ci metteranno a tacere accusandoci di invidia; e il peggio è che stavolta, magari, avranno persino ragione.

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«Corriere della Sera», 6 novembre 1994. Poi in Contraddetti, Scheiwiller, Milano 1998.

giovedì 25 agosto 2011

Una poesia di Walter Galli

La poesia

T’a m’ dmand sempra chi èla
d’indù ch’la ven
ach faza ch’la j à
s’l’è óna che a stèi dria la i sta...

Ah, s’a l’ savess!
andreb ad vulèda a fèi la serenèda
o a struzèla.

dicembre 1990




La poesia

A me domandi sempre chi è
da dove viene
quale volto abbia,
se a lungo andare cede alle lusinghe...

Ah, lo sapessi!
a farle la serenata volerei
o a strangolarla!

g. z.


Una poesia di Francis Ponge


Le cageot

A mi-chemin de la cage au cachot la langue française a cageot, simple caissette à claire-voie vouée au transport de ces fruits qui de la moindre suffocation font à coup sûr une maladie.
Agencé de façon qu’au terme de son usage il puisse être brisé sans effort, il ne sert pas deux fois. Ainsi dure-t-il moins encore que les denrées fondantes ou nuageuses qu’il enferme.
A tous les coins de rues qui aboutissent aux halles, il luit alors de l’éclat sans vanité du bois blanc. Tout neuf encore, et légèrement ahuri d’être dans une pose maladroite à la voirie jeté sans retour, cet objet est en somme des plus sympathiques, – sur le sort duquel il convient toutefois de ne s’appesantir longuement.



La cassetta

Tra casetta e cassata la lingua italiana ha cassetta, semplice cassa a giorno votata al trasporto della frutta che del minimo accenno di soffocazione fa subito una malattia.
Costruita in modo che alla fine dell’uso possa essere rotta senza fatica, non serve due volte. Così dura ancora meno delle derrate fondenti o nuvolose che racchiude.
Ad ogni angolo delle strade che portano ai mercati generali, riluce allora con lo splendore senza vanità del legno grezzo. Del tutto nuovo ancora, e lievemente stupito di ritrovarsi in posa maldestra buttato per strada senza ritorno, questo oggetto è in fin dei conti dei più simpatici – sulla sorte del quale non ci si deve tuttavia appesantire troppo a lungo.

Jacqueline Risset


Una poesia di André Frénaud

Maison à vendre

Tant de gent ont vécu là, qui aimaient
l’amour, le réveil et enlever la poussière.
Le puits est sans fond et sans lune,
les anciens sont partis et n’ont rien emporté.
Bouffe le lierre sous le soleil d’hier,
reste la suie leur marc de café.
Je m’attelle aux rêves éraillés.
J’aime la crasse de l’âme des autres,
mêlée à ces franges de grenat,
le suint des entreprises manquées.
Concierge! J’achète, j’achète la baraque.
Si elle m’empoisonne, je m’y flambe.
On ouvrira les fenêtres... Remets la plaque.
Un homme entre, il flaire, il recommence.



Casa da vendere

Tanta gente è vissuta qui, cui piaceva
l’amore, il risveglio e levar la polvere.
Il pozzo è senza fondo e senza luna,
i vecchi son partiti senza portar via nulla.
Si gonfia l’edera sotto il sole di ieri,
restano la fuliggine, i fondi del caffè.
M’attacco ai sogni ragnati.
Mi piace la sporcizia dell’anima degli altri
commista a queste frange di tela granata,
l’untume delle imprese mancate.
Portinaio! Compro, compro la baracca.
Se m’avvelena, mi ci scotto.
Apriran le finestre... Rimetti la targhetta.
Un uomo entra, annusa, ricomincia.

Giorgio Caproni

Tre poesie di Guillaume Apollinaire

Le chat

Je souhaite dans ma maison:
Une femme ayant sa raison,
Un chat passant parmi les livres,
Des amis en toute saison
Sans lesquels je ne peux pas vivre.


La souris

Belles journées, souris du temps,
Vous rongez peu à peu ma vie.
Dieu! Je vais avoir vingt-huit ans,
Et mal vécus, à mon envie.


La chenille

Le travail mène à la richesse.
Pauvres poètes, travaillons!
La chenille en peinant sans cesse
Devient le riche papillon.




Il gatto

In casa mia desidero:
Una donna fornita di ragione,
Un gatto che passi tra i libri,
Amici in ogni stagione
Senza i quali non posso vivere.


Il sorcio

Bei giorni, sorci del tempo,
Voi mi rodete a poco a poco la vita.
Avrò presto ventott’anni, buon Dio!
E mal vissuti, a capriccio mio.


Il bruco

Il lavoro conduce alla ricchezza.
Poveri poeti, lavoriamo!
Il bruco faticando senza posa
Diventa la ricca farfalla.

Clemente Fusero


mercoledì 24 agosto 2011

Franco Fortini: “Consigli (?) per giovani poeti”

La maggior parte dei giovani che scrivono versi partecipa a concorsi per inediti, pubblica versi su fogli locali, si mette in relazione con una rivista, manda il dattiloscritto a un autore, a un critico, per giudizio o consiglio. La richiesta, evidente o sottintesa, è spesso di introduzione agli “ambienti” letterari o di aiuto alla stampa, quando non di “presentazione”. Eppure, nella maggioranza dei casi, il «furor di gloria» o non c’è o è ben occultato da un più intenso bisogno di valutazione, di giudizio. Si vuole che qualcuno ci dica chi siamo (come fosse possibile!). L’incertezza sul proprio stato nello stato del mondo si rivolge a qualcuno cui, per proiezione dei propri desideri e di un qualche fantasma di se stessi, si attribuiscono conoscenza o saggezza o fraternità: padre, fratello, compagno, psicologo, maestro, sacerdote. Quel tramite è però erroneo fin dalla radice, perché rafforza l’illusione di rafforzare il proprio io con la scrittura. Ci si persuadesse che la vera letteratura si costituisce più come operazione che nasconde e meno come un atto che svela! Più la poesia è tale, più costruisce un simulacro, una statua o un fantasma che divorano l’autore.

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«Il Sole 24 Ore», 25 aprile 1993

Due poesie di Remo Pagnanelli

l’anima, la cosa così detta, si risolse e accomodò nel cuore fondissimo della pioggia notturna, e persuasa (sedata e sedotta da sé stessa, dalla favola dei ricongiunti), più non parlò, divenendo la cosa così detta, l’anima senza nome.

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tra un tentativo e l’altro (suicidario), scrivo un saggio di sudario su Viaggio d’inverno, preparo un libro dal titolo Atelier d’inverno (sussidiario). L’inverno è in me, certamente. Parcamente mi consolo in tombeaux di autori celebri. Anche qui, vedete, conati (clonazioni), disperazioni disperanti, dispersioni.

Una poesia di Friedrich Hölderlin

Il mezzo della vita

Di gialle pere il suolo
e colmo di rose selvagge
pende nel lago, voi cigni del cuore,
e il capo di baci ubriaco
nell’acqua tuffate
ch’è santa e non turba.

Ahimè, dove li prendo,
ora ch’è inverno, i fiori, e dove
del sole la luce, della terra
l’ombra? Al freddo muti
se ne stanno i muri, nel vento
stridono le banderuole.

Gianfranco Contini

Una poesia di Rainer Maria Rilke

Immer wieder, ob wir der Liebe Landschaft auch kennen
und den kleinen Kirchhof mit seinen klagenden Namen
und die furchbar verschweigende Schlucht, in welcher die andern
enden: immer wieder gehn wir zu zweien hinaus
unter die alten Bäume, lagern uns immer wieder
zwischen die Blumen, gegenüber dem Himmel.



Sempre di nuovo, benché sappiamo il paesaggio d’amore
e il breve cimitero con i suoi tristi nomi
e il pauroso abisso silente, dove per gli altri
è la fine: torniamo a coppie tuttavia
di nuovo tra gli antichi alberi, ci posiamo
sempre, di nuovo, tra i fiori contro il cielo.

Giaime Pintor

Una poesia di Johann Wolfgang Goethe

Meeres Stille

Tiefe Stille herrscht im Wasser,
Ohne Regung ruht das Meer,
Und bekümmert sieht der Schiffer
Glatte Fläche ringsumher.

Keine Luft von keiner Seite!
Todesstille fürchtelrich!
In der ungeheuren Weite
Reget keine Welle sich.

1787



Mare calmo

Grande pace tiene l’acque,
posa il mare senza un’onda,
e vede inquieto il navigante
tutto il liscio che lo circonda.

Da nessuna parte un fiato.
Quiete di morte che spaventa.
Nello spazio interminato
Non si muove neanche un’onda.

Giorgio Orelli

Una poesia di Thomas Stearns Eliot

Song

If space and time, as sages say,
Are things that cannot be,
The fly that lives a single day
Has lived as long as we.
But let us live while yet we may,
While love and life are free,
For time is time, and runs away,
Though sages disagree.

The flowers I sent thee when the dew
Was trembling on the vine
Were withered ere the wild bee flew
To suck the eglantine.
But let us haste to pluck anew
Nor mourn to see them pine,
And though the flowers of life be few
Yet let them be divine.


Canzone

Se spazio e tempo, come i saggi dicono,
sono cose che mai potranno essere,
la mosca che è vissuta un solo giorno
vissuta è a lungo proprio come noi.
Dunque viviamo per quanto ci è possibile,
finché l’amore e la vita sono liberi:
il tempo è il tempo, e il tempo scorre via,
per quanto i saggi non siano d’accordo.

I fiori a te inviati allorché la rugiada
tremolava sul tralcio rampicante,
prima che l’ape volasse a suggere
la rosellina di macchia erano già appassiti.
Ma noi affrettiamoci a coglierne ancora
senza tristezza se poi languiranno;
se i fiori della vita sono pochi
facciamo almeno che siano divini.

Roberto Sanesi

Una poesia di Vladimír Holan

Un muro completamente diverso

Un muro, un muro completamente diverso
che appare solo al crepuscolo
e soprattutto nelle tenebre,
un muro di qua di pietra e di là di mattoni...

Invecchiando, l’uomo che non sa dove andare,
e vorrebbe proseguire
vi sbatte la testa e prega:
«Spòstati, cedimi, poiché non sei lontananza
ma solo distanza!»

Ma il muro non si persuade
a non esistere...

Angelo M. ed Ela Ripellino

martedì 23 agosto 2011

Una poesia di René Char

Le mur d’enceinte et la rivière

Je ne voudrais pas m’en aller devant toi, telle une herbe fauchée, t’appeler contre Thouzon désert et son cœur non détruit.



Il muro di cinta e il rio

Andarmene non vorrei innanzi a te
come erba falciata, chiamarti
contro Thouzon deserta
e il suo non distrutto cuore.

Vittorio Sereni

Una poesia di William Carlos Williams

The Lonely Street
School is over. It is too hot
to walk at ease. At ease
in light frocks they walk the streets
to while the time away.
They have grown tall. They hold
pink flames in their right hands.
In white from head to foot,
with sidelong, idle look–
in yellow, floating stuff,
black sash and stockings–
touching their avid mouths
with pink sugar on a stick–
like a carnation each holds in her hand–
they mount the lonely street.


La strada solitaria
Finita è la scuola. Fa troppo
caldo per andare su e giù.
Per ammazzare il tempo, in bluse chiare,
vanno su e giù per le strade.
Sono cresciute, recano una fiamma
rosa nella mano.
In bianco da capo a piedi
con pigri obliqui sguardi
in tele ariose e gialle
nero foulard calze nere
sfiorando le bocche golose
con cannucce di zucchero rosa
– un garofano pare in mano a ognuna –
salgono la strada solitaria.

Vittorio Sereni

Una poesia di Ezra Pound

In a Station of the Metro

The apparition of these faces in the crowd;
Petals on a wet, black bough.



In una stazione del métro

Questi volti apparsi tra la folla:
petali su un ramo umido e nero.

Vittorio Sereni

Una poesia di Paul Celan

Sprich auch du

Sprich auch du,
sprich als letzter,
sag deinen Spruch.

Sprich –
Doch scheide das Nein nich vom Ja.
Gib deinem Spruch auch den Sinn:
gib ihm den Schatten.

Gib ihm Schatten genug,
gib ihm so viel,
als du um dich verteilt weiβt zwischen
Mittnacht und Mittag und Mittnacht.

Blicke umher:
sieh, wie’s lebendig wird rings –
Beim Tode! Lebendig!
Wahr spricht, wer Shatten spricht.

Nun aber schrumpft der Ort, wo di stehst:
Wohin jetzt, Shattenentblöβter, wohin?
Steige. Taste empor.
Dünner wirst du, unkenntlicher, feiner!
Feiner: ein Faden,
an dem er herabwill, der Stern:
um unten zu schwimmen, unten,
wo er sich schimmern sieht: in der Dünung
wandernder Worte.




Parla anche tu

Parla anche tu,
parla per ultimo,
dì il tuo pensiero.

Parla –
Ma non dividere il sì dal no.
Dà anche senso al tuo pensiero:
dagli ombra.

Dagli ombra che basti, tanta
quanta tu sai
attorno a te divisa fra
mezzanotte e mezzodì e mezzanotte.

Guardati intorno:
vedi come in giro si rivive –
Per la morte! Si rivive!
Dice il vero, chi dice ombre.

Ma ora si stringe il luogo dove stai:
Adesso dove andrai, spogliato dell’ombre, dove?
Sali. A tasto innàlzati.
Più sottile divieni, quasi altro, più fine!
Più fine: un filo, lungo il quale
vuole scendere, la stella:
per giù nuotare, giù, dove essa
si vede brillare: nel mareggiare
di errabonde parole.

Giuseppe Bevilacqua

Una poesia di Gottfried Benn

Kommt –

Kommt, reden wir zusammen
wer redet, ist nich tot,
es züngeln doch die Flammen
schon sehr um unsere Not.

Kommt, sagen wir: die Blauen,
kommt, sagen wir: das Rot,
wir hören, lauschen, schauen
wer redet, ist nicht tot.

Allein in deiner Wüste,
in deinem Gobigraun –
du einsamst, keine Büste,
kein Zwiespruch, keine Fraun,

und schon so nah den Klippen,
du kennst dein schwaches Boot –
kommt, öffnet doch die Lippen,
wer redet, ist nicht tot.




Venite

Venite, parliamo tra noi
chi parla non è morto,
già tanto lingueggiano fiamme
intorno alla nostra miseria.

Venite, diciamo: gli azzurri,
venite, diciamo: il rosso,
si ascolta, si tende l’orecchio, si guarda,
chi parla non è morto.

Solo nel tuo deserto,
nel tuo raccapriccio di sirti,
tu il più solo, non petto,
non dialogo, non donna,

e già così presso agli scogli
sai la tua fragile barca –
venite, disserrate le labbra,
chi parla non è morto.

Ferruccio Masini

lunedì 22 agosto 2011

Due risposte di Giampiero Neri

Mi auguro che in quei giovani che praticano oggi la poesia vi sia una ricerca di profondità, di verità.

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Durante il mio lavoro di bancario, l’episodio di gran lunga più significativo e importante per me è stato l’incontro con un calabrese che era stato accompagnato in banca dalla moglie e dal fratello, forse per sostegno psicologico. Tralasciando alcuni particolari che possono avere poca importanza in questa sede, successe che sulla base della documentazione che mi fu data mancavano i presupposti per un prestito, e mentre giravo le carte pensando a come dire di no a questo signore, il fratello, che di mestiere faceva il pescivendolo, in un momento di silenzio che durava già da qualche minuto mi disse: “Si fidi, signor Pontiggia, si fidi. Se non si fida dei poveri, di chi vuole fidarsi?” Una frase così memorabile non mi era mai capitato di sentirla, né l’avrei più sentita. Alla fine, quel prestito fu erogato e tutto filò via liscio.

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in Massimiliano Martolini, Giampiero Neri. Il mestiere del poeta, Cattedrale, Ancona 2009.

domenica 21 agosto 2011

Una poesia di Ferruccio Benzoni



La mia vita finisce
là esattamente dove
per pudore congiunti
cominciano i tuoi piedi.



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Si tratta di un testo inedito, senza titolo, del 1993. Un testo che, per cortesia di Ilse Maier, moglie del poeta, apparve in una mia plaquette fuori commercio del 1997: Fuoricorso, con una nota di Massimo Raffaeli, Colpo d’occhio, Rimini.
g. z.

Eugenio Montale "sulla poesia"

Non ci sono scorciatoie, né per la produzione né per l’appercezione dell’arte; non possono esistere né manuali né cattedre né corsi accelerati che permettano di apprendere ciò che si può imparare solo con la fatica di anni e col sussidio di una sicura vocazione.

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È lecito supporre che i libri di poesia siano acquistati dai poeti stessi, così numerosi da formare un pubblico.

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La poesia, sia o non sia impegnata nel senso richiesto dalla momentanea attualità, trova sempre la sua rispondenza. L’errore è di credere che la rispondenza debba essere fulminea, immediata. Al mondo c’è posto per Hölderlin e c’è posto per Brecht. Altro errore è credere che la rispondenza si misuri con criteri statistici. Chi ha più lettori vale di più, risponde meglio alla domanda del mercato. E così si torna alla poesia intesa come merce da vendere.

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I confini tra verso e prosa si sono molto ravvicinati: oggi il verso è spesso un’illusione ottica. In una certa misura lo è sempre stato; una impaginazione sbagliata può rovinare una poesia; i Fiumi di Ungaretti non sono comprensibili senza lo stillicidio verticale delle sillabe. Gran parte della poesia moderna può essere ascoltata solo da chi l’abbia veduta.

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E che dire della situazione del poeta nella società attuale? In genere non è una situazione allegra: c’è chi muore di fame, c’è chi vive alla meno peggio con altri mestieri, c’è chi va in esilio e c’è chi sparisce senza lasciar tracce. Dove sono andati Babel’ e Mandel’štam? Dove, se non verso il suicidio, Blok e Majakovskij? E dove, se non al manicomio, Dino Campana? (Mi limito ai moderni: l’elenco potrebbe essere assai più lungo.)
Ma questi sono casi, in ogni modo, gloriosi: sono l’onore della poesia moderna. Molti altri casi rendono comprensibile il discredito in cui è caduto il moderno animale poetico. E non è solo colpa della società: è in gran parte colpa dei poeti.



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da Sulla poesia, Mondadori, Milano 1976.

sabato 20 agosto 2011

Una risposta di Vittorio Sereni

Io sono fra quelli che augurano una rapida estinzione della società letteraria così com’è oggi: delle sue consuetudini, delle sue convenzioni e dei suoi cerimoniali; e cioè la cessazione dell’attuale rapporto scrittore-pubblico, e del modo in cui questo rapporto o mediazione avviene. Intendiamoci: uno scrittore non può non avere un pubblico, è giusto che lo abbia, ma che sia pubblico di ciò che lo scrittore scrive, non pubblico del personaggio che egli è o tende a diventare, demagogo, mattatore o sofista. Lo scrittore, in quanto individuo, in quanto persona, lo vedo più volentieri assorbito nella folla, nel popolo.

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in Ferdinando Camon, Vittorio Sereni. Il mestiere di poeta, Lerici editori, Milano 1965.

mercoledì 17 agosto 2011

Introduzione a "Finestre"

Con queste "finestre" apro una mia personale rivista, di sola lettura e con eventuali collaborazioni ad invito, legata essenzialmente alla poesia, augurandomi che possa rivelarsi di pubblica utilità. Intanto, però, sarà utile che io mi presenti. Sono nato nel 1959 a Cesena, dove risiedo e lavoro. Ho esordito in versi nel 1984 con la plaquette Monolocale, Presentazione di Renato Turci, Maggioli, Rimini. Le varie pubblicazioni successive, che hanno scandito per anni un’attività costante e appartata, sono confluite nel volume I rimanenti, con una Nota di Giovanni Raboni, peQuod, Ancona 2001, cui ha fatto seguito, per le stesse edizioni, Finestre di via Paradiso, Presentazione di Giampiero Neri, nel 2008. È del 2010 la plaquette Nove prose + quindici, Nota di Giampiero Neri, Colpo d’occhio, Rimini. Del 2006 e del 2011 sono invece le raccolte di scritti critici e interviste Sereni e dintorni, Joker, Novi Ligure, e Sereni e altri dintorni, Bohumil, Bologna. È di prossima pubblicazione, presso Interlinea, Riunione di famiglia (1982-2012). Ecco dunque le prime "finestre", che guardano a un testo di Vittorio Sereni, da "Stella variabile", e ad altri a lui dedicati. Grazie dell’attenzione. g. z.






Paura prima

Ogni angolo o vicolo ogni momento è buono
per il killer che muove alla mia volta
notte e giorno da anni.
Sparami sparami – gli dico
offrendomi alla mira
di fronte di fianco di spalle –
facciamola finita fammi fuori.
E nel dirlo mi avvedo
che a me solo sto parlando.
                                            Ma
non serve, non serve. Da solo
non ce la faccio a far giustizia di me.

Vittorio Sereni




A Vittorio Sereni

Come ci siamo allontanati.
Che cosa tetra e bella.
Una volta mi dicesti che ero un destino.
Ma siamo due destini.
Uno condanna l’altro.
Uno giustifica l’altro.
Ma chi sarà a condannare
o a giustificare
noi due?

Franco Fortini




A Vittorio Sereni dopo molti anni

Quando scendevi dalla collina sfiorita
di mezza estate alla pianura paziente –

arresa all’ordine dei coltivi alla
rotazione delle semine per il mio profitto –

tu ufficiale in licenza pago di salvare
nella tua cassetta metallica i tuoi fogli e libri

tuoi anche se scritti da altri nell’imbarco
imminente tu volto tutto al riscatto

dal privilegio altrimenti odioso dell’arte...

Forse già ti apparivo imboscato nella piccola giungla
del frutteto semiselvatico di medio agrario accucciato

nella tana ansiosa della sua proprietà
il «divino egoista» che tardi più tardi

nominasti a voce alta quasi piangendo
dinanzi a una platea distratta a me vergognoso e felice?

In volo da Roma a Parigi, novembre 1990

Attilio Bertolucci




A Vittorio Sereni

I

Le noci di Gemignaga dice Fortini che sono
di qualità altissima, e Bo che non somigliano ad altre.
È vero che non poche già da lontano si mostrano
insolite, è forse il colore, scuriccio, del guscio
rorido ancora d’autunno, o forse la luce
che accolgono. Non è facile schiacciarle con le mani.

II

Venendo in questo posto per me quasi
di vacanza in ogni giorno dell’anno,
estero sottomano che bastava
a colorarci stranamente l’ora,
ho visto, seduto su un carro
di fini tronchi grigi
un ragazzo: di schiena, viola stinto
il berretto, un ginocchio
alto piegato a spostarmi
l’occhio dal lago alla neve dei monti,
così lucente a tratti
che in corpo non pareva più vivo.

Giorgio Orelli



Rincorrendo Vittorio S. sulla strada di Zenna

I vecchi il fischio del treno
lontano in corsa nella pianura
lo credevano un segno di maltempo
se passava una nuvola sul sole
ecco, dicevano, s’annuvola il Signore.
Io questi brividi di abeti
prima che dalla valle venga il vento
io questo tremito di foglie
dico è un messaggio, qualcuno lo coglie.

Luciano Erba




All’amico

Mesi dopo tra la stupefazione
di chi nella pena un’insensatezza,
una pagina sciatta inopinatamente
(a meno che una Nefertiti) –

Ma il tempismo nella premonizione dei tempi.
A disdoro nostro e di una lordura
d’anni (svastiche di ritorno) che no
un vecchio fighter, o gentiluomo...

Ferruccio Benzoni




A Vittorio

Ho rispettato la quiete
del tuo studio. Erano là
a fissarmi i tuoi occhi.
Li vedevo assorti nel lavoro
ardere dietro un apparente
velo di tristezza... Dietro, era la gioia.
E i miei si chiusero. Non una
di queste cose mi seguì, nel breve
viaggio che feci verso le ombre,
non una, ma, ricordo, strane immagini
d’abbandono, e pensieri
importuni che venivano a riprendermi.
Dopo filtrò più luce, ed era ancora Milano, la tua stanza,
l’Italia che mai più grande e leggera
è di quando risale
a Lecco per le valli, e io mi dicevo:
si slargherà il suo cielo
su noi e sempre più lievi ombre saremo
al suo perpetuo schiarire.

Alessandro Parronchi