sabato 29 ottobre 2011

Una pagina di Roman Jakobson





     Noi ci siamo gettati con troppa foga e avidità verso il futuro perché ci potesse restare un passato. S’è spezzato il legame dei tempi. Abbiamo vissuto troppo del futuro, pensato troppo ad esso, in esso troppo creduto, e per noi non c’è un’attualità autosufficiente: abbiamo perso il senso del presente. Noi siamo i testimoni e i compartecipi di grandi cataclismi sociali, scientifici e d’altri ancora. La vita quotidiana è rimasta indietro. Secondo una splendida iperbole del primo Majakovskij, «l’altra gamba corre ancora nella via accanto». Sappiamo che già i più intimi pensieri dei nostri padri erano in disaccordo con la loro vita quotidiana. Abbiamo letto pagine severe sulla vecchia vita mal aerata che i nostri padri prendevano a nolo. Ma i nostri padri avevano ancora dei residui di fede nel suo carattere confortevole e universale. Ai figli è rimasto soltanto un odio nudo per il ciarpame ancora più logoro ed estraneo di quella vita. Ed ecco che «i tentativi di organizzare la vita personale assomigliano agli esperimenti per scaldare un gelato».
     Neppure il futuro ci appartiene. Tra qualche decennio ci affibbieranno duramente il titolo di «uomini dello scorso millennio». Avevamo soltanto canzoni affascinanti che ci parlavano del futuro, e d’un tratto queste canzoni da dinamica del presente si sono trasformate in fatto storico-letterario. Quando i cantori sono uccisi, e le canzoni trascinate al museo e attaccate con uno spillo al passato, ancora più deserta, derelitta e desolata diventa questa generazione, nullatenente nel più autentico senso della parola.

5 giugno 1930.



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Da Una generazione che ha dissipato i suoi poeti. Il problema Majakovskij, a cura di Vittorio Strada, Einaudi, Torino 1975, p. 42.