Sottopassaggi
La strada scendeva, sia pure di poco, ma come inabissandosi d’improvviso.
Scendeva tra orizzonti di pietra e di ferro: muri squadrati, che creavano più livelli per il traffico, alte case popolari, terrapieni che sulla destra creavano il piano rialzato della ferrovia. Scendeva curvilinea, anche: con una brusca svolta sulla sinistra, prima, e poi due o tre più brevi e appena accennate giravolte, che a percorrerle in bici o in motorino davano una bella soddisfazione, come di scivolare leggermente su una pista, addentrandosi in qualcosa e, nello stesso tempo, oltrepassando qualche misterioso limite.
Del resto, da qualunque parte si tentasse di passare, il quartiere era collegato al centro cittadino da gallerie, che superavano dal basso il grande fiume di binari e massicciate. A nord, certo, ci sarebbe stato l’arco di un ponte, di un cavalcavia che tuttavia raramente si utilizzava per andare in città: troppo esterno e fuorviante, lo si prendeva solo in determinate occasione, per dirigersi fuori, ad esempio, o, una volta l’anno, per andare al cimitero a trovare i poveri morti. E in effetti, dalla sommità di quell’arco si godeva per un istante un panorama stupefacente: la ferrovia, vasta e costeggiata di capannoni segreti, rimesse, lunghe tettoie di legno per il carico e lo scarico delle merci, e più distanti le colline, le montagne, il bosco alle spalle che costituiva l’altro limite del mondo; e lì sotto, proprio accanto ai binari, anzi tra i binari dei treni passeggeri e quelli, ben più numerosi, dello scalo merci, lì in mezzo, in una breve oasi silenziosa, il cimitero, spazio geometrico delimitato da un muro, con le sue vie interne ghiaiose e silenti, i cipressi dal colore spento e dall’odore canforoso, e tutti quei nomi scolpiti, quelle statuine raggelate. Ma appunto, escludendo questa possibilità o riservandola ai pomeriggi festivi, dove si poteva camminare a lungo e senza meta, gli altri punti di passaggio erano tutti sotterranei: la lunghissima galleria più meridionale, stretta e liscia, che metteva direttamente nel cuore pulsante della cittadina; l’altra, che si percorreva più spesso rincasando e che aveva qualcosa di cupo, inquietante, con i suoi muri coperti di mattonelle un tempo bianche, ora sporche e viscide, sopra le quali sbottavano minacciose le sporgenze regolari di blocchi di pietra scura, perfettamente allineati l’uno sull’altro, e quasi neri o verdastri, con qualche traccia di muschio o lichene.
E infine il nostro passaggio preferito: la strada che scendeva sinuosa, con i suoi tre sottopassaggi: non vere gallerie, ma brevi zone d’ombra, accenni di caverna e di buio subito interrotti dalla luce: tra un sottopassaggio e l’altro si vedeva il cielo, con le sue nuvole; si scorgeva, alzando la testa, un frammento di binario, su cui a volte poteva transitare lentamente una locomotiva rossa dalla forma allungata come un coccodrillo; o l’altra, sua parente piccola, sempre rossa ma come rincagnata, che veniva utilizzata forse per le manovre più correnti e veloci. Camminando lentamente lungo il marciapiede, si costeggiava la breve balza erbosa chiusa verso l’alto dalla ruggine di un reticolato; lassù, attraverso certi varchi segnalati da piste terrose che segnavano l’erba, si sarebbe potuto entrare nel regno proibito dei binari e dei treni, cosa che si faceva raramente, con la coscienza di penetrare in un luogo pericoloso e terribile, infrangendo divieti assoluti (e una volta o due: non ci si era forse arrischiati ad attraversare così, verso il crepuscolo, l’intera superficie di binari, come guadando un fiume largo e periglioso, stando bene attenti a rimanere chinati e nascosti agli sguardi, evitando i vagoni in movimento, le luci in arrivo?). Da quell’altezza vietata scendevano talvolta uomini scuri e gravi, vestiti di blu, con galosce vistose, aranciate o gialle, cappelli di pelo che coprivano le orecchie; scendevano fumando, o passandosi bottiglie di birra, battendo le mani nel freddo, smuovendo le zolle e facendo rotolare sotto gli scarponi pesanti i pochi sassi rimasti in mezzo all’erba; se parlavano, lo facevano con voci arrochite, in una lingua per noi quasi incomprensibile, come un dialetto chiuso, un gergo ferrigno per iniziati; e del resto non parevano neppure vederci, mentre balzavano dall’erba sull’asfalto e si dirigevano a grandi passi verso certi locali fumosi dove avrebbero trascorso una pausa colma di cose a noi sconosciute, borbottando qualcosa ogni tanto sopra le tazze e i bicchieri.
C’era, dunque, questo incrocio di piani, di linee, di vie; questo incrocio di mondi e di realtà, improvvisamente messi in contatto l’uno con l’altro. In alto passavano i treni, più sopra ancora gli aerei, segnando il cielo con una scia bianca; qua sotto correvano automobili, furgoni, e dall’alto al basso transitavano ragazzi e uomini fatti, donne mature e giovani ninfe, presenze note e divinità sconosciute, ombre. C’erano pietra e ferro, terra e erba; sulla scarpata si potevano trovare rari fiori e persino dei funghi, oggetti smarriti e pagine di giornale; e una volta, misteriosamente, in mezzo alla strada apparve una scarpa spaiata, come un ghigno assurdo. Era una scarpa da donna, con il tacco appuntito, che apriva con la sua immotivata presenza lo scrigno dell’immaginazione e delle ipotesi.
Per quale ragione l’immagine di quel tratto di strada, del tutto anonimo e privo di interesse, riemerge con tanta evidenza nella memoria? Cosa accadeva di tanto importante nel tragitto quasi quotidiano di chi passava di lì, certo pensando ad altro, da fissarsi così potentemente in qualche meandro della coscienza? E ancora: è verosimile che proprio in quei tre brevi sottopassaggi ferroviari stia il germe iniziale di una visione del mondo, la stessa che credo di ritrovare spesso passando in certi paesaggi urbani o boschivi caratterizzati dalla sovrapposizione di prospettive diverse, dalla stratificazione degli spazi e dei tempi, delle materie e dei linguaggi? Lo Slussen, a Stoccolma, le intersezioni di strade, rotaie, tracciati pedonali, acqua e metropolitana (e il riflesso quasi perfetto dei finestrini illuminati sopra il lago, quando la sera si accende di elettricità e tutto pare sospeso e miracoloso nel freddo), e poco più in là il groviglio di costruzioni antiche e moderne che si inerpica sulla costa quasi abrupta; le traboules di Lione, gallerie strette e arcane che corrono attraverso le case e gli ombrosi cortili interni, salendo per scale segretissime verso il quartiere popolare dei Canuti dai volti scolpiti di dolore, corridoi di fuga e di rivolta, cunicoli della speranza e della resistenza; i vicoli di Napoli o di Ancona, il mondo pietroso e arroccato di Alfama, il fascino delle periferie meno turistiche, dei quartieri esterni traversati dagli anelli delle circonvallazioni; o ancora la matassa di arbusti e di tronchi, di rocce incavate e passerelle sospese che posso cercare in qualche luogo poco battuto, nella boscaglia o sulla riva di un fiume dimenticato, sul costone inospitale di una montagna o nella brughiera. Non le rutilanti gallerie parigine, e neppure gli splendidi paesaggi assoluti, assolutamente definiti da una forma univoca e coerente di bellezza: quella del mare o del cielo, del deserto o della neve. Non la perfezione o il sublime, ma il punto di contatto, la mescolanza opaca, l’attrito; il punto in cui qualcosa smette di essere solo se stessa e confina con l’altro, senza peraltro potersi trasformare o smemorare, prigioniera di sé eppure aperta, umilmente disponibile e quasi sul punto di smarrirsi definitivamente, come la scarpa perduta in mezzo alla strada o la luce nell’attimo che segue o precede il buio.
Una simile coscienza avrebbe iniziato a prendere confusamente forma allora? Qualcosa che oggi posso ritrovare con stupore, tra mille definizioni migliori e certo ben più eleganti e raffinate, nella pagina iniziale di un romanzo giallo di John Connolly, Gente che uccide (e anche la mia passione per questo genere minore, per la periferia più malfamata della letteratura alta, che in molti suscita forse stupore o disprezzo: non nasce nello stesso territorio? Nella speranza che qui appunto, nel luogo più umile e meno propizio, il posteggio di un supermercato o l’antinferno di una bassezza pseudoletteraria, si possa credere più auspicabile e più probabile la provvisoria apparizione di un frammento di verità e forse di bellezza, tanto precaria quanto lancinante):
«Questo è un mondo a nido d’ape. Nasconde un cuore vuoto.
La verità della natura, ha scritto il filosofo Democrito, si nasconde nella profondità di miniere e caverne. La stabilità di ciò che vediamo e sentiamo sotto i piedi è un’illusione, poiché questa vita non è quello che sembra. Sotto la superficie ci sono crepe e fenditure e sacche d’aria viziata e intrappolata; stalagmiti e stalattiti e fiumi oscuri non segnati sulle carte che scorrono perennemente verso il basso. È un luogo di caverne e cascate di pietra, un labirinto di tumori cristallini e colonne di ghiaccio dove la storia diventa futuro, l’allora diventa ora.
Poiché nel buio assoluto il tempo non ha alcun significato.
Il presente si stratifica in modo imperfetto sul passato, non combacia regolarmente su ogni punto. Le cose cadono e muoiono e il loro destino crea nuovi strati, ispessendo la crosta superficiale e aggiungendo un’altra sottile membrana a coprire ciò che giace sotto, nuovi mondi sui resti dei vecchi. Giorno dopo giorno, anno dopo anno, secolo dopo secolo, gli strati si accumulano e le imperfezioni si moltiplicano. Il passato non muore mai per davvero. È sempre lì in attesa, appena sotto la superficie dell’ora».
Il presentimento, ancora vago, di una complessità: questo forse era il tesoro che le tre caverne sotto la ferrovia potevano schiudere al viandante privo di certezze. E a ben guardare, allora come oggi, ciò che spesso si è chiamato pienezza, armonia è una sensazione, per il poco che mi è accaduto di conoscerla, che non posso non correlare a un improvviso senso di densità del mondo e dell’esistenza: una densità leggera, luminosa, in cui ogni elemento, ogni atomo di Democrito, si rivela parte di un tutto non coeso ma conglomerato, non liscio e polito ma opaco eppure splendente a suo modo, opacamente splendente, non immobile ma vorticante eppure per un attimo tutto intero presente nelle sue mille sfaccettature, difficile e accogliente, non privo di ostacoli e cupe minacce eppure anche ricco di fiducia e di promesse. L’universo che in questo istante sembra rivelarsi alla coscienza non può avere una forma definita; ma certo è caratterizzato più da un senso di profondità che da una superficie, più da un’intuizione verticale che da un’espansione nello spazio, più dal segreto curvilineo della sfera che dalla logica chiarezza di una linea. Lungo l’asse verticale, lo stesso che dall’erba e dall’asfalto balzava allora verso i binari e verso il cielo annuvolato, affiorano i tempi, si stabiliscono impreviste connessioni, le parole distanti e i volti dimenticati si chiamano e si rispondono; e proprio di questo forse parlavano nel loro linguaggio incomprensibile gli uomini vestiti di blu che scendevano enigmatici dai buchi nel reticolato; a questo alludeva la scarpa femminile rimasta solitaria in mezzo alla strada; questo gridavano le rondini stridule vorticando nei sottopassaggi. Ci voleva, per proseguire il viaggio, una certa lucidità dello sguardo, e la prontezza di accogliere le visioni laterali, le immagini che si sarebbero appena registrate con la coda dell’occhio; ma, anche, una forma dell’intelligenza diversa da quella più ufficiale e più ammirata, un’intelligenza capace di vedere ciò che non può essere visto, un’intelligenza empatica, forse, una direzione dello sguardo che per manifestarsi avrebbe avuto bisogno dello smarrimento e della cecità, dell’abbaglio e del buio. O, più semplicemente, della pazienza e dell’umiltà necessarie per sopravvivere lungo strade desolate e mediocri, oggetti smarriti e oggetti ritrovati casualmente, assenza di gesti eroici e di sublimi agnizioni. La pazienza e l’umiltà: cose poco eroiche, non molto raggianti, né facili da scegliere; ma a questo avrebbero semmai pensato la vita, il caso, le piccole e grandi disavventure, perché forse la pazienza e l’umiltà non si possono scegliere una volta per tutte, e tanto meno lo si può fare quando si è molto giovani; possiamo al massimo incontrarle lungo il cammino, compagne di strada un po’ smunte e impolverate, da seguire silenziosamente, imparando da ciò che non dicono, dai loro gesti misurati, dai loro sorrisi sempre incerti.
Tra il primo e il secondo sottopassaggio, e poi anche tra il secondo e il terzo, sul lato privo di marciapiede, una strada saliva perpendicolare, vietata al traffico e ai pedoni, verso gli uffici ferroviari, battuti da operai, spedizionieri, forse contrabbandieri; la si vedeva salire bruscamente, poi placarsi come se avesse raggiunto la sommità di una gobba, dove si stagliava una sbarra rossa e bianca, e poco oltre qualche baracca di legno, dei vagoni immobili. Mai stato lassù, davvero mai stato, nell’arcano di quei luoghi superiori. Ma talvolta, camminando, si avvertivano contemporaneamente un rumore anomalo e un odore pastoso, e dopo un istante appariva il carro trainato da un cavallo e guidato da quello che tutti chiamavano Bigìn, vero e taciturno signore del luogo, che si presentava come un nocchiero infernale. Erano, credo, l’ultimo carro e l’ultimo cavallo della cittadina, l’ultimo barbaglio di un’epoca quasi terminata, quasi del tutto scomparsa; del cavallo ricordo soprattutto i paraocchi, i finimenti scuri, le froge e il loro respiro fragoroso, con sbuffi come di fumo, e quelle tracce brune, compatte e odorose che restavano sull’asfalto e che le prossime automobili avrebbero cercato di evitare spostandosi bruscamente da parte. Il carro, invece, l’avrei conosciuto meglio, salendoci anche nei pomeriggi di gioco, quando sostava sotto gli ippocastani dal Lazzaretto, dove si andava a correre, arrampicare e combattere. Di quale Lazzaretto si trattasse, lo ignoravamo, come forse ignoravamo il significato del termine (anche se certe narrazioni di epidemie antiche, e poi di soldati italiani internati per qualche tempo in quelle baracche, prima di essere tradotti a nord, nei campi di lavoro dell’Altipiano svizzero, erano giunte sino a noi); certo non avevamo ancora letto Manzoni, né percorso i quartieri un po’ tristi che dalla Stazione centrale di Milano salgono verso l’antica cerchia delle mura. Ma al Lazzaretto si andava spesso, comunque, più o meno ignari; e il carro del Bigìn, o forse un altro al suo così simile e lì abbandonato, permetteva di fare molte cose: salire più in fretta sugli alberi, viaggiare lontano fino al Rio Bravo o a Forte Alamo, ruotare faticosamente la manovella del freno, immaginando le criniere alte nel vento della prateria, stremarsi in scontri vorticosi di castagne d’india e di ghiande. Poco sotto di noi, gorgogliava l’acqua di un piccolo ruscello, che di lì a poco sarebbe sparito, come ogni altra cosa di quel tempo incenerito, e che tuttavia forse scorre e gorgoglia ancora, non visto né avvertito, sotto le cantine dei palazzi che su quei prati paludosi sarebbero sorti per ospitare le numerose famiglie, soprattutto straniere, che nel quartiere in espansione si sarebbero stabilite, e non avrebbero mai potuto vedere né forse immaginare l’antichissimo Bigìn, divinità ctonia che collegava i mondi guidando lentamente il suo ultimo cavallo. Non so cosa trasportasse, e per quale ragione a lui fosse concesso di salire faticosamente quel tratto di strada a noi proibito, schioccando la lingua per incitare l’animale, la pipa in un angolo della bocca, il cappello sopra la zazzera grigia, il gilé o la giacca da lavoro, i baffi; non so cosa trovasse oltre la sbarra che si alzava per lui, e non so quale a me sconosciuto paesaggio si aprisse allora davanti ai suoi occhi, che forse già guardavano altrove.