Mi è quasi intollerabile la lettura dell’Iliade, di quell’orgia di battaglie, piaghe e morti, di quella guerra stupida ed eterna, della collera bambinesca di Achille. L’Odissea è invece a misura umana, la sua poesia nasce da una speranza ragionevole: la fine della guerra e dell’esilio, il mondo ricostruito sulla pace conquistata attraverso la giustizia.
Siamo nel canto IX. Ulisse è sfuggito alla prigionia nella caverna del Ciclope. Ha perso molti compagni, ma poi la sua astuzia ha avuto ragione della rozza violenza di Polifemo; Ulisse lo ha ubriacato, accecato, ha eluso la sorveglianza del mostro grazie all’espediente dei montoni. Potrebbe andarsene in silenzio, ma preferisce portare a compimento la sua rivincita: è fiero del suo nome, che finora aveva taciuto, è orgoglioso del suo coraggio e del suo ingegno. È «un uomo da nulla», ma vuole far sapere alla torre di carne chi è stato il mortale che lo ha sconfitto.
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Da La ricerca delle radici. Antologia personale.