Caro Fabio, sei conosciuto soprattutto come poeta, ma poi è anche vero che per molti ragazzi tu sei stato o sei il prof. Fabio Pusterla, docente di lingua e letteratura italiana al Liceo cantonale di Lugano e all’Università di Ginevra. Come vivi questi due “mestieri”, coesistono naturalmente in te, come si potrebbe anche dedurre leggendo le tue opere, dal forte contenuto civile, oppure no?
Mah, io sono, è vero, soprattutto un insegnante di liceo (l’esperienza universitaria di Ginevra è durata un paio d’anni; ora ne sto cominciando un’altra a Lugano, e sono cose che mi piacciono molto e che mi obbligano a rimettermi al lavoro ogni volta; tuttavia, dopo tanti anni, lo so bene: io insegno soprattutto ai ragazzi in età di liceo, e mi piace farlo), o comunque di scuole medie superiori. Lo faccio se non sbaglio da quasi trent’anni e, malgrado un certo logorìo, questa è una professione che ancora mi affascina, e spesso mi entusiasma. Non so bene dire in che rapporto sta questo lavoro con l’altro, più segreto e solitario, della scrittura poetica; per molto tempo mi è parso che tra le due cose ci fosse un dialogo complicato, a tratti contraddittorio, che cercavo di risolvere dicendomi, più o meno in buona fede, che dagli studenti potevo imparare molte cose, entrando in contatto talvolta molto ravvicinato con le loro vite, con i loro problemi, e così via. Non era un alibi; ma non era neppure abbastanza. Col tempo, con le letture e con la riflessione mi è parso di capire qualcosa di più importante; e cioè che tra l’urgenza espressiva che ti può spingere verso la parola poetica (o, si capisce, verso un altro linguaggio artistico) e l’adolescenza o comunque l’età giovanile esiste forse un rapporto profondo: è in quel momento, in quegli anni, che può capitare per la prima volta, e nel modo piû sconvolgente, di intuire che una parte essenziale, bruciante e tormentosa del nostro essere non riesce ad essere indagata, spiegata od espressa da nessuno dei linguaggi che comunemente usiamo e che la scuola ci insegna. Eppure quell’esperienza, quella affezione dell’animo come diceva Leopardi, chiede ascolto e voce: e forse solo un linguaggio artistico e creativo è in grado di tenderle la mano, di darle senso. Sicché, tutto sommato, non avevo torto: sono davvero io che imparo dagli studenti, perché la tempesta e la confusione che talora li attraversa mi aiuta a non perdere di vista ciò che davvero conta nel processo creativo, e a ritornare costantemente all’origine della parola che chiede di essere detta; e d’altro canto posso sperare che il mio tentativo di scrivere mi permetta almeno ogni tanto di risultare ai loro occhi un po’ meno prevedibile, un po’ meno noioso, forse persino un po’ più convincente. Oppure potrei anche dire questo: che insegnare al liceo mi impedisce di credere che la letteratura e la poesia siano un monumento dato una volta per tutte, possiedano un valore assoluto; il loro valore è enorme, certo, ma va ricreato ogni volta, e non si esaurisce in sé: si attiva solo attraverso un vero processo di lettura e di fascinazione. E questo diventa possibile soltanto se e quando il testo entra in rapporto profondo con la vita e l’esperienza del suo lettore, che scopre qualcosa di sé nelle parole di un altro essere umano. Se qualcosa del genere avviene, la letteratura ha un senso. Altrimenti, no.
Tu che studente eri, e oggi quali studenti (e genitori) ti augureresti di incontrare, da insegnante? Poi, tra la scuola dei tuoi anni e quella attuale, che cosa è cambiato, in bene o in male, ad esempio (non ne sono informato) esistono ancora i voti, per cui se uno come me, ed era posso dire la regola, prendeva 4 in matematica, doveva poi sperare di prendere 8 per riaggiustare la media, oppure due 7 o non ricordo più quanti 6?
Sui genitori non mi pronuncio; li vedo poco, nel complesso, e per lo più mi auguro che lascino ai loro figli e ai loro insegnanti (tra cui ci sono anch’io) il tempo e lo spazio per lavorare autonomamente; e che non credano che la scuola è un self service, dove uno va, si serve, paga e torna fuori con la merce. Non è così.
Quanto agli studenti, non devo augurarmi niente: di solito, sono sempre gli stessi, pur nell’inevitabile mutamento degli anni e delle generazioni: pieni di curiosità, di contraddizioni, di speranze e di paure.
La scuola che ricordo io aveva soprattutto tanti difetti, alcuni dei quali imperdonabili. I maestri picchiavano, umiliavano, talvolta rovinavano i loro alunni. Io ho avuto fortuna, perché ero bravino a scuola e rispettoso, e magari un po’ pavido; ma ho assistito, alle elementari, a scene angosciose, che hanno poi avuto conseguenze gravi. Più avanti, alle medie, le cose andavano un po’ meglio, ma fino a un certo punto. E poi la selezione avveniva su basi sostanzialmente socio-economiche: io sono sfilato quasi miracolosamente tra le maglie di un destino che, con appena un po’ più di sfortuna, non mi avrebbe affatto concesso di studiare. Allora, malgrado le geremiadi di molti insegnanti, pedagoghi e intellettuali: io di quella scuola non rimpiango un bel niente, e penso che oggi le cose siano cambiate in meglio, di molto. Poi, lo sappiamo tutti, c’è anche il peggio: adesso tutti possono andare a scuola, tutti possono studiare; e l’impressione a volte desolante è che il livello si sia abbassato, la curiosità intellettuale stia scemando, eccetera eccetera. Può darsi che sia così. Ma di chi è la colpa? Dove sta scritto che la democratizzazione degli studi voglia dire automaticamente abbassamento della qualità? Chi ha scelto di indebolire, svilire e minare la scuola pubblica? Come mai i miglioramenti strutturali non sono stati accompagnati dai necessari investimenti finanziari, dal necessario sostegno politico e culturale? Chi ha rubato ai ragazzi la fiducia?
La scuola di oggi è in seria difficoltà, mi sembra; ma la scuola di ieri poteva chiudere gli occhi sulle sue difficoltà, che forse non erano meno drammatiche.
E i voti? Ah, quelli ci sono ancora. E ancora ci sono gli insegnanti che impugnano i voti come armi da taglio, e quelli che li interpretano in un modo un po’ meno assoluto. Dipende.
Quando andavo a scuola la stragrande maggioranza degli studenti studiava malvolentieri i poeti, direi tutti i poeti, forse un po’ meno i narratori, perché per questi mi sembra di ricordare che non si pretendessero letture pappagallesche o puntigliose parafrasi. Cosicché in seguito non mi sono affatto meravigliato che questa moltitudine di ex studenti, una volta fuori dalla cosiddetta scuola dell’obbligo, non si sia più sentita “obbligata”, appunto, ad aprire un libro di poesie, e del fatto che gli unici poeti che conosce (quasi solo di nome, s’intende) siano rimasti quelli delle museali antologie scolastiche, va da sé inesorabilmente defunti e imbalsamati. Come dunque avvicinare i giovani alla poesia, senza fargliela odiare? Tu cosa dici loro?
Non so se posso rispondere bene. Intanto, la mia esperienza è un po’ diversa: non so i miei compagni, ma io non ho odiato da ragazzo la poesia, anche se non capivo molto del poco che ci proponevano. Mi affascinava, credo, il ritmo: soprattutto quando lo coglievo (o credevo di coglierlo) in versi o espressioni di cui capivo poco o nulla: versi latini, per esempio, che un certo insegnante scandiva e che io non potevo tradurre. Sicché rimaneva l’involucro, come una formula magica che mi suggeriva qualcosa: un modo ‘altro’ di usare le parole. Che poi vuol dire: sottrarre le parole alla loro quotidianità comunicativa, e intuire che così dislocate esse possono aprire prospettive diverse, e diversamente profonde. Toccare zone sconosciute dell’esperienza, o roba del genere. Se ad un certo punto della mia vita la poesia ha cominciato ad affascinarmi, è stato per ragioni di questo tipo; e sono le ragioni di questo tipo che cerco, a modo mio, di suggerire agli studenti. Dopo, ma solo dopo, arrivano gli aspetti scolastici, storici, strutturali, stilistici. La lettura del testo poetico, si capisce, richiede fatica e strumentazione raffinata; ma perché si debba faticare e dotarsi di un simile bagaglio, si può capirlo solo in un territorio delicato e non facilmente definifibile, in cui la parola e l’esperienza profonda, toccante e dolorosa, trovano un contatto bruciante, un’alleanza o una ferita comune. Senza questa illuminazione, che non è facile creare artificiosamente, il linguaggio della poesia è incomprensibile e inutile.
Allora, non ho un preciso metodo. Faccio quello che fanno tutti gli insegnanti, credo: propongo dei testi e degli autori, cerco di leggerli bene, di farli amare. Soprattutto, aspetto con grande attenzione: che cosa? Il momento in cui mi sembra possibile stabilire un contatto tra questa o quella poesia e la vita profonda di questo o quello studente. Oggi, mentre provo a rispondere a questa domanda, è capitata una cosa bella: un mio studente, non particolarmente bravo in italiano, ha accettato il mio invito, e ha recitato un canto di Dante di fronte a un pubblico abbastanza ampio e sconosciuto (con alcuni amici abbiamo organizzato una giornata particolare: 34 persone, molto diverse l’una dall’altra, hanno recitato da mattina a sera i 34 canti dell’Inferno dantesco, nella biblioteca della nostra scuola: c’erano intellettuali, musicisti, attori, bancari, giovani e vecchi, matematici e giornalisti; e c’era anche il mio studente, nervosissimo, che ha letto bene). Come mai ha accettato? Perché un anno fa ho saputo delle cose sulla sua vita, ho conosciuto una sua zona di disagio; gli ho dato qualcosa da leggere, che lui ha letto, senza capire forse tanto bene, ma capendo ciò che davvero contava. Non è che da allora sia diventato bravissimo; però la poesia ha cominciato a parlare con lui, e oggi può avere uno spazio nella sua vita. Se questo ragazzo oggi fosse stato malato, c’era pronto un sostituto: lo studente tecnicamente peggiore di questi ultimi anni, che tuttavia aveva a sua volta accettato; probabilmente perché, prima di accettare questa cosa, ne aveva accettata un’altra, cioè il suggerimento di scrivermi, durante l’estate una lettera ogni due settimane, per raccontarmi quello che voleva. Gli avevo spiegato che magari questo sarebbe stato un modo per migliorare un po’ la sua situazione; sicché mi ha scritto, e gli ho risposto; e poi quando a settembre gli ho presentato l’eventualità di una lettura pubblica di Dante, ha detto che aveva paura di non essere capace, ma che accettava. Tutto questo non c’è scritto sui manuali o sulle antologie; e io stesso, scrivendo queste cose, mi dico: ma cosa sto dicendo? Eppure, caro Gabriele, è questa l’unica vera risposta che so darti. E si ritorna a ciò che dicevo all’inizio: se la poesia non ha questo posto e questo senso: perché mai dovremmo perdere tempo a leggerla?