giovedì 8 settembre 2011

Da “L’osso, l’anima” di Bartolo Cattafi



A Vittorio


Mio amico,
                 oggi è il dieci settembre
millenovecentosessantadue
e fa ancora caldo
benché siano le undici di sera.
La città è Milano
la stessa città dove tu vivi.
Seduto a questo tavolo bruciato
dalle cicche, senza più vernice,
bollato dal fondo dei bicchieri,
nella casa che conosci.
Ti scrivo per dirti
che quanto prima me ne vado.
Da uomo a uomo voglio dirti grazie
e chiederti scusa delle cose
che fui costretto a darti
quello che fu possibile cavare,
la farina la crusca
uscite dal mio sacco,
di cui ci sarà presto l’inventario.
Vorrei che tu fermassi nella mente
la mia vera sostanza soprattutto
che dalla tua ebbe
luce, vento, profilo
– ignoro che profitto seppe trarne
la mia greve difficile sostanza.
E rientri nei calcoli la sola
verde foglia velenosa,
forma di lancia
rivolta di più verso il mio petto
(conosci i modi offerti dalla vita
di saggiare la morte, tu, con le tue mani,
di attrarla a te, puntartela sul petto
per insania, viltà verso la vita?).
Tutto fu cotto ad un vero fuoco.
Ed ora
tutto è in un fermo vetro trasparente.
Questa amicizia fu per me qualcosa
che non può con l’altro
connettersi, eguagliarsi
nell’amalgama,
bigia spuma, buon sasso,
sabbia sfuggente,
e tu fosti ineguagliabile qualcuno
alta onda smagliante nel gran mare,
cuore saldo e preciso
illimitato cuore fantasioso.
Questa immagine ho avuto,
questa mi porto chiusa dentro il sacco.
Dovrei dirti di come me la passo,
l’ansia, l’affanno
– buffi gesti del muscolo cardiaco –,
l’aria che manca se di poco m’affaccio
al luogo dove andrò.
Comunque ti formulo la mia
speranza-promessa:
appena posso
da una cella celeste o infernale
farti una buona
tenace, terrestre compagnia.
Ti dovevo tanto. Ti saluto.