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E infine cosa resta, oscuro, inattuato
ingrato grumo di coscienza, forza
insoddisfatta, impura, ostile, sfatta
al primo naufragare in pene astratte
e vacue, consueto tic di suoni e urla
agitàti in me, un io straniato e sia
paesaggio interno di rovine, uno
che si candidi al silenzio e invece
apra la sua voce roca contro un’erta
stagliata estrema e spoglia tra marcite
e sterpi. Qui che mi rinomino nel mentre
non sono in me ma si trascende
il sibilo agguerrito di un eloquio
fratto, brusco, inaccessibile per via
di mera cortesia, un nome appena
per poi disgiungerne i due capi – male e
malinconica sostanza – e ritornare
sui propri passi, una distanza che si colma
più da sé che per appostamenti decisivi
da onda in onda, a tu per tu col mio
ed il tuo nero. A parlare, a dire cosa
come e quando e sino a che e per quanto
riformulare un quinto, più preciso
insegnamento: vivi inappagato e senti
l’arretratezza del grecale su vestiti
sgombri di calore e pioggia, un fronte
di tempesta che si sfrangia verso nord
e tu, mio meridione, a diffonderti
nel cupo, desolato contrafforte di macerie
a piena oltranza di rabbioso assalto
e sfiato e folto giacimento, umore
d’antracite. Svettano così in porto
i simboli issati dalle navi a immagine
di un carico ignorato dalle masse
d’erbe acquatiche che le assillano
in profondo. E me in mistero eretto.
Regina governata dalle spesse
coltri di fumo ingigantito nei segnali
del giorno ancora infisso nella notte.
C’è un cuore, una forma indefinita
pur nitida e stagliata nella zona
inaccessibile del mondo, persona
e cosa guadagnate in arrendevole
vicenda di pena e di pietà nel nulla
rifondate, temuta schiera, semi
di verbena, mani sudate. Giunge
la sua lunga ora, diranno più parole
di quante se ne dicano nel sogno
della morte inapparente, un quasi
tracimare di pienezza e senso
ritrovato, sin qui presente, avuto
in grazia di risarcimento e ora
giustificato nella santità dei corpi
viventi e suscitati in un’idea
di stanza, varco, luce suprema.
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Dal testo intitolato L'ansia.
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Dal testo intitolato L'ansia.