sabato 2 agosto 2014

Luigi Di Ruscio




                                                                       Lido di Fermo.




Avevo cinque anni
una vecchia mi fece capire
perché nessuno mi tenesse sui ginocchi
mia nonna che mi teneva per mano non mi difese
né per consolarmi mi strinse la mano
per questo sono andato solo sui fiumi
l'acqua non mi è servita per specchiarmi
ritornavo a casa per non dormire sul greto
a quell'età la fame fa essere pazzi
fa divenire presto adulti
e tutte le erbe che le capre hanno brucato
ho imparato a cogliere
ho preso il gusto del sapore amaro
questo è stato il mio latte
e perché rubavo con calma avevo i frutti più belli
andavo solo per non essere scoperto
al mio odore i cani non hanno abbaiato
e nessuno può condannarmi
se presto mi sono adoperato a negare iddio
sulle mura che l'acqua gonfiava
avevo visto solo le immagini di carta
ho scoperto i libri nel mucchio dello stracciaio
ancora oggi mi incanto a guardarli
cercavo tra le carte la pagina scritta
ho gridato e mi hanno guardato come essere vivo
come qualcosa di più di un viaggiatore
sono entrato nelle strade
quale bambino non sogna di vestire da uomo
io lo sono stato presto
ho trovato ancora con i pantaloncini corti
una donna che è rimasta contenta
perché gli uomini gli facevano male
ho volato sui pensieri
sognando per ogni foglia che ho visto cadere
erano le ore senza riposo
le chiese servivano per rinfrescarmi
giravo assetato delle donne
che presto con soldi rubati ho pagato.
Ora sento l'amore delle donne che sfiora il viso di fiati
stringo i capelli grassi
e le mie labbra da negro mi portano fortuna
gli occhi che non sanno riposare.

[Non possiamo abituarci a morire, Schwarz, Milano 1953]




un orologio centesimale timbra nel cartellino delle presenze
ed io presente metto in moto tutti i motori
iddio deve girare perenne in perennità primo di tutti i motori
satana nel centro dell'immobile col culo incastrato e salvo dalla nausea
timbro sulle scorze evolute del mondo la lingua batte sui denti sani rimasti
finire e ricominciare sino a nausea totale sulla testa del chiodo battere
non capovolgere l'ombrello il calice qualsiasi cosa accada
accettare tutto con tutta la cassa e risuscita tra i cartoni ondulati
tenere alta la cassa che incassa gli universi fragili
tutto deve essere incassato avvolto c'è pericolo dello sfaldamento generale
il richiamo intontisce abbacina essere nel pieno dei richiami è la condizione
ad ogni porta la nuova sino all'ultimo sprofondo
abbacinata dai pezzetti di vetro colorati e gli sparano addosso
nelle latrine disegnate donne con spacchi enormi pronti all'ingoiamento
dentro la membrana morbidissima esce fuori e cade nell'organismo sociale
timbrare e ricomincia la fatica di dover respirare finirà che mi arroteranno
qualsiasi cosa tocco mi sembra importante mi ci aggrappo e così non mi                arrotano
io metallizzandomi e fossilizzandomi diventerò completamente incommestibile
l'uomo è misurabile a tempi il mio è veloce e vi colpisce in pieno
tentare l'ultima apertura scavalcare nell'illimitato sino alla nausea totale
perfino il ciottolo buttato nell'acqua metteva in moto la nausea
in questi punti sempre più veloci del mondo ricominciare sino a nausea totale
di questo inferno accettare la parte di diavolo ancora più velocemente correre
alla fine verrà selezionato un uomo del tutto adatto
la salvezza non è possibile

[Apprendistati, Bagaloni, Ancona 1978]




mettete nella scansione tutta la vostra rabbia
dire con feroce calma
ogni verso che sono riuscito a scrivere
mettere un baratro tra me e loro
oppure leggere come se l’utopia
fosse rimasta solo nei miei versi
fare atti sconci verso il pubblico tutto
ad ogni modo divertitevi
la poesia è come il sangue universale
possiamo darlo a tutti
però ogni altro sangue
ci mette in pericolo estremo

[L’ultima raccolta, Manni, Lecce 2002]




tutto ad un tratto ho capito
che Iddio non è altro
che l’idealizzazione del padrone
anche i cani hanno un padrone
e il credere in Dio
non ci distinguerebbe dai cani
finiti i padroni
scompare anche Iddio dietro la curva
e ci distingueremo dai cani

[L’Iddio ridente, Zona, Arezzo 2008]


Eugenio De Signoribus




                                                      Cupra Marittima, Castello di S. Andrea.                                                          



(sartoria)


in tasche minori di abito autunnale
anche ragione sua muffa respira

la disinvoltura è solo autocontrollo
gli scatti provocano fitte e rancori

il sarto ride quando cade a pennello
o le gobbe non sono colpa del taglio

– è stoffa buona, sarà dura a morire,
ma ricucirti l’anima non posso… – 

il sarto si muoveva come in una musica
pareva Fred Astaire intorno a un lampione




(cinematografica)


parlava il duro come un presentatore
l’impermeabile grinzoso nella pioggia

stava in ombra l’amico, un capo fumatore
o anche un braccio destro tenebroso…

– Bogart, ascolta, l’albero della vita
ha gracili radici, le divora un verme,

qualcuno più forte di noi ci ha lasciato
i suoi rimorsi dentro un salvadanaio… –

(aspettare non si può una poesia smarrita
per scansare il capestro già assegnato…)




(libresca)


mai la vita che li aveva contemplati
di stupire finiva per il loro sfocare

aperti come finestre impenitenti
serviti anche in limacciosa deriva

molli arbusti di girasole i libri
liberi da ogni compito pedagogico…

messo in croce il verso, torturato
chiosato di lato o di traverso

poi rimane lì come un ciaffo puerile
timido graffio o schiaffo da travaso…




(conciliazione)


la porta a vetri non copriva l’addormentarsi
di parole architettate per accettarsi o sfarsi

più autentico del baratro è il cancellarsi
la dimenticanza ha fauci più fonde di oceano…

nel polmone dei libri un parassita barbaro
evocato da chissà quale distrazione verbale

attaccato aveva la nudità del margine
sbriciolando le pagine, senza pubblicità…

ma nessuno vedeva riconciliate le ceneri
oltre la porta, nell’ordine domestico…




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Questi testi da Altre educazioni (1991) sono i primi quattro della sezione Le suicide, significativamente dedicata da De Signoribus al poeta maceratese Remo Pagnanelli (1955-1987). Si trovano in Poesie (1976-2007), Garzanti, Milano 2008.

mercoledì 2 luglio 2014

Franco Scataglini




Ancona, Fontana delle Tredici Cannelle.



Voce senza figura


In 'sta conca de vechi
muri de cita' scura,
chi te porta ai orechi,
voce senza figura?

Chi 'n cor mio te fa drita
come punta de chiodo,
in 'sta carne ferita
chi me t'ha fato nodo?

                                                      











  
  (da E per un frutto piace tutto un orto, L’Astrogallo, Ancona 1973)
                                                                                                                                                                                                                                                                           




Vita e scritura


Per me vita e scritura
ene compagni, el sai,
tuta scancelatura
dopo dulor de sbai.

Se cerca 'n sono lindo
drento de se' e se trova
el biatola' d'un dindo
spersose 'nte la piova.


(da So’ rimaso la spina, L’Astrogallo, Ancona 1977)






O cita', crucifisse
a ochi de poeta
estragne case, in seta
(come chi se confisse

da bregno siderale
su marciapiede cupo)
va i angioli a lo sciupo
senza resiste.

Vale
come nodo scursore
che stroza la parola
al nasce scura in gola
(pero' senza dulore)

ogni logo.
Ah le bare
vote, de nisciun evo,
del cimitero abrevo
portato via dal mare

(da Carta laniena, Residenza, Ancona 1982)



Mirko


- Mirko - benzinareto
sortito for dal banco
de gerba scola
e' neto
el parabreza, bianco.

Quindicianni costreti
da 'na tuta: lavori.
Cosi' dietro a le reti
vedrai smuri' i culori

del mondo eternamente
(spuserai
avrai fioli
tuto sara' per niente)



(da Rimario agontano, Sceiwiller, Milano 1987)


martedì 1 luglio 2014

Francesco Scarabicchi




                                                            Ancona, Monumento ai Caduti.



La casa


Chissà chi era quella luce bassa
che illuminava appena il tavolino,
bagliore calmo tra la sponda e il libro,
chissà se si chiamava come allora
o dalle vele degli anni trasformava
la voce in lume dell’inverno bianco?



L’aiuola


C’è la corona di conchiglie grandi,
una terra mai mossa, quasi legno,
il piccolo oleandro, una panchina
che forse è stata verde,
un gatto rosso addormentato ai bordi,
ossi di pesca e cardi rinsecchiti.

Dei fasti della corte resta niente,
di quell’impero vegetale è il sonno
che tocca la ringhiera arrugginita,
gli scalini, la piccola fontana.
Ogni beltà è sparita come nube
a cui è negato il più lontano cielo.



Giulio


S’è perduto nei giorni, s’è smarrito,
lui che tornava, senza essere andato,
da un marciapiede del tardo pomeriggio, 
l’abito stretto col cappello alzato,
gli occhiali da sole e quel sorriso,
innocente, che dedicava al mondo.




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Da 1980.

domenica 1 giugno 2014

Marco Ferri








*


Al crepuscolo tutto il vantaggio
delle cose fatte è perduto. Rimasugli
di homo sapiens. Quella ragazza incinta
che seduta sul marciapiede guardava
dal punto più basso del mondo
la sua pancia gonfia e gli occhi dei passanti
nell’altro mondo.


*


Ho vissuto una cinquantina d’anni
nel novecento e senza nostalgia,
senza nessuna nostalgia per l’umanesimo,
osservo che il testimone
passa alla tecnologia,
come un viaggio notturno senza meta
annusando universi paralleli. 
Credo che manchi poco al confine.
Non so se appaiono o si stanno cancellando
macchie di boschi, sagome di chiese, estirpate
le radici dei discorsi e i respiri
primordiali di piante e animali.




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Insonnia da Inverno nell’Antropocene.