domenica 28 agosto 2011

Un articolo di Pier Paolo Pasolini

[ I giovani che scrivono]

È un anno che tengo una rubrica settimanale di diligenti articoli letterari. Vorrei parlarne. Non farne un consuntivo (che è sempre sentimentale e moralistico), ma trarne alcune considerazioni: anzi, due considerazioni.
In un anno non ho parlato nemmeno una volta dell’opera prima di un giovane. Posso eccettuare Andrea Valcarenghi (che ha scritto un ingenuo libro sulla propria esperienza contestataria) e l’equipe di Luigi Cancrini (che ha scritto un libro sulla tossicomania giovanile in Italia): ma si tratta di documenti o lavori sociologici, non di opere letterarie. Il più giovane letterato di cui ho scritto è il quasi trentenne Dario Bellezza: ma Il carnefice era il suo quarto libro (aveva già pubblicato un romanzo, L’innocenza, uno straordinario libro di versi, Licenze e invettive e un altro romanzo, assai bello, Lettere da Sodoma). Ciò che mi chiedo è questo: son io che non amo occuparmi dei giovani o non ci sono giovani di cui vale la pena occuparsi? Ho dato una rapida occhiata all’enorme congerie di volumi che ho preso in considerazione in quest’annata di «diligenti articoli letterari», e mi sono reso conto, che non solo non sono usciti libri di giovani di cui valesse la pena occuparsi ma addirittura non sono usciti libri di giovani. L’elenco di opere pregevoli di trentenni, che potrei fare, è tutto qui: Procida di Franco Cordelli (Garzanti), Cani sciolti di Renzo Paris (Guaraldi), Il supplente di Fabrizio Puccinelli (F.M. Ricci), Terrore piccolo borghese di Anna Maria Guerrieri (F.M. Ricci). Quelle dei ventenni sono ancora più poche ed esili. Ciò mi ha allarmato. Non sono «pensoso» delle sorti della letteratura, mi nego a inchieste giornalistiche o a congressi che abbiano questo tema. Sono impaziente e sicuramente anche un po’ «aristocratico» di fronte al problema della letteratura come problema sociale. Eppure nel momento in cui mi sono reso conto che quest’anno – e probabilmente in tutti questi ultimi anni – non è uscita un’opera prima importante di un giovane, e che addirittura, i giovani in genere non scrivono più opere letterarie – ho provato un senso di panico, un’angoscia personale.
L’istinto consolatore mi ha poi fatto correre col pensiero a dei manoscritti di giovani che ho qui a casa mia: una sceneggiatura, di alto livello intellettuale, dovuta a Sandro Gennari, e un bellissimo romanzo neocrepuscolare, atroce (Un borghese piccolo piccolo) di Vincenzo Cerami. Ho pensato inoltre a qualche gruppo di giovani che opera in provincia: per esempio, un gruppo di Cesenatico (che, ahimè, si è battezzato «Collettivo»), con una sua piccola rivista («Sul porto»), in cui, con i resti desolanti del linguaggio e della passione sessantottesca, c’è un ritorno non nostalgico, ma corposo, e realmente culturale, ai poeti degli anni Cinquanta. Ma tutto ciò è molto poco.
Non voglio comunicare in proposito la mia ambascia, ma piuttosto la mia impotenza a spiegare il fenomeno. Il mio agnosticismo, nella fattispecie, si identifica con tre spiegazioni polemiche: 1) La neo-avanguardia del quinquennio 1963-68 ha bloccato i giovani, che, per moda, hanno fatto dell’antiletteratura prima di fare della letteratura: si sono cioè autocriticati (e molto severamente) su una cosa che non hanno fatto, e di conseguenza hanno criticato gli altri per una cosa che non conoscevano. A causa di una tensione morale da «Club dei suicidi», e di un principio inderogabile fondato sul nulla, hanno rifiutato di esprimersi: ma tutto questo senza alcuno spirito, cioè, per esempio, nel completo oblio di «dadà»: e, in compenso, terroristicamente, con dietro delle miserabili ambizioni pratiche e arrivistiche. Questa formazione neo-avanguardistica dell’adolescenza ha impedito, e forse continua ancora a impedire, a molti giovani una vera e propria esperienza letteraria. Il loro è stato un apprendistato all’aridità e alla presunzione. E in pratica non hanno imparato a far nulla: ma senza nobiltà, però. Perché in tal caso, la mia critica, sarebbe qualunquistica, e lo saprei. 2) Il ’68 ha anch’esso, a sua volta, bloccato i giovani. L’intellettuale si doveva suicidare. La letteratura doveva avere una funzione ancillare e subalterna rispetto alla propaganda politica. Doveva essere strettamente utilitaristica, d’intervento. Chi non era d’accordo su questo era un traditore. E su questi temi, come su tutti gli altri, si doveva essere estremisti: e non importa se estremisti come gli estremisti di un secolo fa, descritti comicamente da Dostoevskij, per esempio. Quale giovane poteva avere il coraggio di opporsi, a fortiori da solo, a una così enorme, trionfale, terroristica corrente d’opinione che vedeva riuniti migliaia e centinaia di migliaia di giovani di tutto il mondo? Si è fatta certo, durante il periodo sessantottesco, un po’ di letteratura: ma ancora della letteratura neo-avanguardista. Mai confusione è stata più mostruosa e idiota. 3) Prima, dopo, al di sotto e al di sopra di tutto questo, c’è la cultura di massa e la civiltà dei consumi, che il Potere è andato macinando e preparando, nei primi anni Sessanta, passando ormai, oggi, su tutto come un rullo compressore. È questo Potere, che, in realtà, non sa più cosa farsene della Letteratura (che per lui è un residuo umanistico, come, in altro modo, la Chiesa, gli istituti morali tradizionali, con Patria e Famiglia, ecc.: insomma tutto il Passato). Di conseguenza, nell’irrisorio contesto letterario, l’avanguardia, prima, e poi su scala mondiale la Contestazione giovanile del ’68, hanno in realtà fatto il gioco di questo Potere. I giovani che avessero una vocazione letteraria, sono stati scoraggiati, deviati, annullati – prima dall’apprendistato neo-avanguardistico e poi dalla Contestazione – proprio, si direbbe, perché al Potere era indifferente che ci fossero o no dei letterati. Anzi, se questi letterati avessero dovuto essere per caso anche degli scomodi intellettuali, era meglio che non ci fossero affatto (che, cioè, l’autocritica neo-avanguardistica fosse andata fino in fondo nel ridurli a degli impotenti; oppure che l’estremismo gauchista li avesse realmente convinti tutti a suicidarsi).
La seconda considerazione che vorrei fare a proposito del mio anno di critica militante è la seguente. Quasi nessuno dei libri di cui mi sono occupato con particolare impegno, attribuendogli un reale valore, è stato recensito col rispetto e l’entusiasmo che io pensavo si meritasse, nelle pagine letterarie dei giornali. Su questo punto sono meno agnostico, e penso che le mie spiegazioni non siano tendenziose. Per la critica sì, vale, alla lettera, tutto ciò che ho detto a proposito dei giovani letterati.
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Le terze pagine di tutti i giornali sono il trionfo del qualunquismo: i libri di cui si parla sono scelti casualmente – come appunto dei prodotti – un po’ secondo le regole del lancio industriale, un po’ secondo le regole del sottogoverno. Affastellati tutti assieme, e scelti senza il minimo rigore, tutto interessa in essi fuori che il loro valore e la loro autenticità. Interessa ciò che essi socialmente rappresentano, ecco tutto. Di un libro si parla perché la moda, la casa editrice, il direttore del giornale, la comune posizione letteraria o ideologica (ma in un senso puramente pratico e personale), vogliono che se ne parli. Verso un libro non si sente più non solo amore (l’amore disinteressato per la poesia), ma neppure interesse culturale. E ciò non accade solo nei critici giovani o di mezza età, ma anche negli anziani e nei vecchi.
Non è tutta colpa loro: cioè non è solo moralistica la mia accusa contro di loro. Infatti alle loro spalle si sta verificando non solo la dissoluzione del grande Dualismo (cultura di destra e cultura di sinistra, comunismo e cattolicesimo), ma la dissoluzione di una cultura e di un’epoca della storia (la cui ultima fase era stata caratterizzata da una sorta di egemonia marxista). Perduti i due poli di riferimento, che schematizzavano la critica, ma anche la obbligavano a compromettersi, a rendersi chiara, e, in qualche modo, appassionata e interessata ai valori autentici (che erano i soli che le servivano e avevano senso), sono successe la confusione e la frantumazione dovute alle esigenze di un mercato che, in questo campo, in Italia, è ancora arcaico malgrado il suo behaviorismo consumistico.

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«Tempo», 23 dicembre 1973. Poi in Descrizioni di descrizioni, a cura di Graziella Chiarcossi, Introduzione di Paolo Mauri, Garzanti, Milano 2006.