La maggior parte dei giovani che scrivono versi partecipa a concorsi per inediti, pubblica versi su fogli locali, si mette in relazione con una rivista, manda il dattiloscritto a un autore, a un critico, per giudizio o consiglio. La richiesta, evidente o sottintesa, è spesso di introduzione agli “ambienti” letterari o di aiuto alla stampa, quando non di “presentazione”. Eppure, nella maggioranza dei casi, il «furor di gloria» o non c’è o è ben occultato da un più intenso bisogno di valutazione, di giudizio. Si vuole che qualcuno ci dica chi siamo (come fosse possibile!). L’incertezza sul proprio stato nello stato del mondo si rivolge a qualcuno cui, per proiezione dei propri desideri e di un qualche fantasma di se stessi, si attribuiscono conoscenza o saggezza o fraternità: padre, fratello, compagno, psicologo, maestro, sacerdote. Quel tramite è però erroneo fin dalla radice, perché rafforza l’illusione di rafforzare il proprio io con la scrittura. Ci si persuadesse che la vera letteratura si costituisce più come operazione che nasconde e meno come un atto che svela! Più la poesia è tale, più costruisce un simulacro, una statua o un fantasma che divorano l’autore.
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«Il Sole 24 Ore», 25 aprile 1993