domenica 2 dicembre 2012

Jean Robaey









Una finestra aperta su Bruxelles


Se si riapre la finestra – la tua finestra, Gabriele, non quella “vera” – la vedo ancora. Bruxelles mi appare lontana, irrimediabilmente lontana. In effetti c’entra con la mia infanzia, con un paese che per me – insieme a lei – è scomparso. Non ci torno spesso e manco da tre anni. Ho vissuto la mia infanzia nella sua larga periferia.

Tu non sai neanche come chiamarla. Qua in Italia non sanno come si pronunci esattamente (alla francese, con una x vera e propria? Decisamente no), non sanno che è di origine fiamminga e che è ancora in parte fiamminga, non sanno neanche cosa significhi esattamente “fiammingo”. In questo senso in questa città mi riconosco: in Italia non sanno come si debba pronunciare il mio cognome.

In effetti non lo so neanch’io. Come non so esattamente cosa sia Bruxelles. Da piccolo la conoscevo poco, era la città grande, dove si andava ogni tanto, non era quella da cui provenivo (o meglio quelle da cui provenivo: Charleroi vallona e Ostenda fiamminga da parte di mio padre, piccoli paesi nelle Ardenne vallone da parte di mia madre). Era una città fredda e altezzosa, di cui però conoscevo alcuni quartieri popolari che me la facevano amare. Un po’ ci sono andato a scuola, tra i 10 e i 12 anni. Più tardi, a 18 anni, ci andavo a trovare una ragazza (italiana, già allora, e che appena ho toccato).

Subito dopo sono vissuto in Italia (che già conoscevo), dove tuttora vivo. A Bruxelles sono tornato. Anzitutto per la morte di mia madre prima e di mio padre molto tempo dopo. Poi per la biblioteca e gli amici (ne basta uno solo) che si occupavano di cose simili a quelle di cui mi occupavo io. Ma anno dopo anno mi sentivo più lontano, anno dopo anno la città era meno mia, e sempre più fredda, e sempre più lontana. Finché la lontananza mi è diventata vicina, finché la lontananza mi è diventata l’unico modo per esserle vicino.

Non ho mai desiderato viverci, ci ho dormito pochissime volte (meno che a Bruges, la città che più amo e che lascio ogni volta piangendo). È la città dove verifico che il tempo passa, che la realtà si allontana e mi diventa ogni volta più incomprensibile. Diversamente da Bologna, dove ho abitato e amato, dove torno quasi settimanalmente, dove non vedo il tempo passare, o meglio dove vedo il tempo di oggi e quello di ieri, sempre fermo alle stesse date. Dove, uno dopo l’altro, muoiono i miei amici più grandi.

Bruxelles è popolare e borghese, liberty, americana e europea – grigia, biancastra e gialla. Scimmiotta Parigi – vi scorre un’altra Senna. Molta pioggia e molta (da quando?) sporcizia. Città dove cambio treno e prendo il tram. Ferma per me nel tempo lontano delle sue chiese, nel tempo della mia infanzia. Città che non riconosco e non mi riconosce.


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Inedito.