La lingua è mobile: muta di accento
Nella generale incertezza che avvolge il nostro Paese è inevitabile che l’incertezza sull’accento delle parole passi perlopiù inosservata. Eppure anche questa è, nel suo piccolo, destabilizzante; e forse, a differenza dell’altra, non sarebbe impossibile porvi rimedio.
Tanto per cominciare, si potrebbe chiedere a quanti ci parlano ogni giorno dagli schermi televisivi di mettersi d’accordo fra loro, in modo che non ci tocchi più di sentire annunciare un servizio sull’assassinio di Ràbin nel corso del quale si parla dell’assassinio di Rabìn, e che una certa contessa amica di Craxi non venga chiamata, nel giro di pochi secondi, una volta Àgusta e una volta Agùsta.
Ma quello dei nomi, in fondo, è il minore dei problemi. Il peggio è quando a slittare dal piano allo sdrucciolo, e viceversa, sono parole qualsiasi, parole di uso comune, facendoci venire il dubbio di essere noi in errore sin da piccoli, sin dai tempi delle elementari.
Possiamo sempre, è vero, prima che il dubbio trapassi in crisi di identità, andare a consultare i dizionari; ma anche con quelli, purtroppo, può capitarci qualche brutta avventura.
Per esempio, se l’ottimo Dizionario Garzanti della lingua italiana ci procura un momentaneo sollievo assicurandoci che si dice, come abbiamo sempre detto, cucùlo, incàvo, seròtino e zaffìro, il recente e molto decantato Dizionario Garzanti dei sinonimi e dei contrari ci fornisce un cùculo, un ìncavo, un serotìno e uno zàffiro di puro stampo televisivo, suggerendoci l’immagine bizzarra e un po’ inquietante di una casa editrice agitata e divisa al suo interno da oscure faide fonico-lessicali.
Conclusioni? Nessuna conclusione, ma semplicemente – citando da un testo per pochi giorni ancora inedito della persona alla quale, lo confesso, devo l’ispirazione e gli elementi essenziali di questa nota – un’esortazione: «Italiani, imparate l’italiano!».
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«Corriere della Sera», 14 gennaio 1996. Poi in Contraddetti, Scheiwiller, Milano 1998.