giovedì 1 ottobre 2015

Elio Tavilla








certo, alla fine i fiori esistono, ma non è per questo che i maiali
ci angustiano con quel dolore da predestinati, lo avranno visto anche loro
il mortale distendersi delle petunie o delle ortensie o ancora i girasoli
con la vaga dissolvenza dilatata all’infinito... Vira al temporale il nostro pomeriggio.
Avevi con te la borsa e la coperta, niente cuoricini infranti sopra i legni scheggiati
dei lecci, e quindi: perché quel palpitare inutile di carni commestibili, lo sai
ti mangerei da viva se proprio lo vuoi detto. Non approvi, continui a camminare
nel breve ti avrei detto qualcosa di trascorso e invece la sirena interrompe
ogni scampo, una cosa per volta – mirare, fingere, sparare


*


sette  di sera, non ho mangiato nulla da due giorni, qualcosa
fuoriesce dallo spazio interstellare, un’ernia indivisibile che le truppe
francesi avrebbero sconfitto come ad Austerlitz o ad Alessandria, le bestie
assiepate sugli spalti come ultima cosa viva da toccare. Però me lo dicevi
che a due giorni da qui c’erano i dolori, ridacchiavi al lugubre messaggio
dei morti: «Butta via la foia che hai in corpo, assièpati come le bestie sugli spalti
sei la carne da cannone del secolo ventuno, uno come tanti». A braccetto
espiavamo le colpe, davanti a un cumulo di ossa consumavamo
il pasto delle fiere


luglio-agosto 2015

martedì 1 settembre 2015

Herman Melville







97. La lampada

   Se foste scesi dalla raffineria del Pequod al castello di prua dove dormivano gli uomini smontati dalla guardia, per un singolo momento avreste quasi creduto di trovarvi in qualche rilucente sacrario di re e di consiglieri canonizzati. Là i marinai giacevano nelle loro triangolari cripte di quercia, ognuno immerso in un silenzio di pietra, mentre la luce di una ventina di lampade colpiva i suoi occhi chiusi.
   Sui mercantili, l’olio per i marinai è più scarso del latte di regina. Vestirsi al buio, mangiare al buio e raggiungere, inciampando nell’oscurità, il proprio giaciglio: questa è l’abitudine. Ma il baleniere, che va alla ricerca dell’alimento della luce, vive perciò nella luce. Fa della sua cuccetta una lampada d’Aladino e ci si corica, così che anche nella notte più scura il nero scafo della nave ospita sempre una luminaria.
   Guardate con che libertà assoluta il baleniere porta il suo mucchio di lampade – benché spesso non siano che vecchie bottiglie e fiale – al refrigeratore di rame della raffineria, per riempirle come boccali di birra a un barile. Brucia anche il più puro degli olii, al suo stato grezzo, e perciò incorrotto; un fluido sconosciuto ai congegni solari, lunari o astrali della terraferma. È un olio dolce come il burro della prima erba d’aprile. Lui ne va a caccia, così da poter essere certo della sua freschezza e della sua genuinità, proprio come il viaggiatore delle praterie va per suo conto a caccia della selvaggina di cui si ciba.



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Da Moby Dick, cura e traduzione di Pietro Meneghelli, Newton Compton, Roma 2004, p. 337.

sabato 1 agosto 2015

Gottfried Benn







Chopin


Conversatore avaro,
le opinioni non erano il suo forte,
le opinioni non vanno mai al sodo,
s’agitava quando Delacroix
illustrava teorie, quando a lui non avrebbe
saputo spiegare i suoi Notturni.

Debole amante;
un’ombra a Nohant
dove i figli di George Sand
rifiutavano i suoi
consigli pedagogici.

Tisico in quella forma,
con emottísi e cicatrizzazioni,
che tira in lungo;
morte tranquilla
a differenza d’una
con spasmi e parossismi
o per salva di colpi:
spinsero il piano (Erard) vicino alla porta
e Delphine Potocka
gli cantò nell’ora estrema
il Lied della violetta.

Andò in Inghilterra con tre pianoforti:
Pleyel, Erard, Broadwood,
la sera suonò per 20 ghinee,
un quarto d’ora,
dai Rothschild, dai Wellington, a Strafford House
e davanti a innumerevoli Ordini della Giarrettiera;
incupito di stanchezza e di morte
ritornò a casa
in Square d’Orléans.

Poi brucia i suoi schizzi,
i suoi manoscritti,
che non ci fossero resti, frammenti, annotazioni,
questi indizi rivelatori –
alla fine disse:
«Le mie opere sono compiute nella misura di ciò
che mi era dato raggiungere».

Ogni dito doveva suonare
secondo la propria conformazione,
il più debole è il quarto
(solo un fratello siamese del medio).
Quando attaccava, posavano sul
mi, fa diesis, sol diesis, si, do.

Chi di lui mai sentì
certi preludi,
sia in ville che in alte
valli sui monti oppure
da porte spalancate su terrazze
per esempio in un sanatorio,
difficilmente potrà dimenticarlo.

Mai composto un’opera,
mai sinfonia,
solo queste tragiche progressioni
per convinzione d’artista virtuoso
e con una piccola mano.



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Da Poesie Statiche, introduzione e traduzione di Giuliano Baioni, Einaudi, Torino 1982, pp. 8-11.

mercoledì 1 luglio 2015

François Truffaut







   Un giorno del 1942, avevo una gran voglia di vedere Les visiteurs du soir (L’amore e il diavolo, 1942), il film di Marcel Carné arrivato finalmente al mio quartiere, al cinema Pigalle, e decisi di non andare a scuola. Il film mi piacque molto. Ma quella sera stessa una mia zia, che studiava al conservatorio, passò da me per portarmi al cinema. Aveva già fatto la sua scelta: Les visiteurs du soir e, dato che non era proprio il caso di confessare che lo avevo già visto, me lo dovetti rivedere, facendo finta di scoprirlo solo allora. Fu esattamente quel giorno che mi accorsi di quanto era affascinante penetrare sempre più intimamente nell’opera che ci piace fino quasi a provare l’illusione di riviverne la creazione.
   Un anno dopo arrivava Le corbeau (Il corvo, 1943) di Clouzot che mi piacque ancor di più: dalla sua uscita (maggio 1943) alla liberazione, che segnò la sua proibizione, lo avrò visto cinque o sei volte. Più tardi, quando tornò in circolazione, lo rividi più volte all’anno fino a conoscerne i dialoghi a memoria, dialoghi molto più spinti di quelli degli altri film e comprendenti un centinaio di parole forti di cui andavo poco a poco scoprendo il significato; tutto l’intreccio di Le corbeau era basato su un’epidemia di lettere anonime che denunciavano aborti, adulteri e corruzioni varie, fornendo un’immagine abbastanza fedele di quello che vedevo attorno a me, guerra, dopoguerra, collaborazionismo, delazione, mercato nero, espedienti vari e cinismo.
   I miei primi duecento film li ho visti in clandestinità, disertando la scuola o entrando in sala senza pagare – attraverso le uscite di sicurezza o le finestre dei gabinetti – oppure approfittando, di sera, dell’assenza dei miei genitori e con la necessità, quindi, di trovarmi a letto fingendo di dormire al loro rientro. Pagavo questo piacere con forti mali di pancia, lo stomaco imbarazzato, i capelli dritti dalla paura, tutto preso da un senso di colpa che non poteva che sommarsi alle emozioni che mi procurava lo spettacolo.
   Sentivo un grande bisogno di penetrare nei film e ci riuscivo avvicinandomi sempre di più allo schermo per astrarmi dalla sala; evitavo i film in costume, di guerra e western perché mi era difficile identificarmi; per eliminazione non mi restavano che i polizieschi e i film d’amore; contrariamente ai piccoli spettatori della mia età, non mi identificavo con gli eroi « eroici » ma con i personaggi handicappati e più sistematicamente con tutti quelli che si trovavano in colpa. Si capirà perché mi abbia sedotto, all’inizio, l’opera di Alfred Hitchcock interamente consacrata alla paura, e successivamente quella di Jean Renoir tutta rivolta alla comprensione: « Ciò che è terribile su questa terra è che tutti hanno le loro ragioni » (La règle du jeu, 1939). La porta era aperta: ero pronto a ricevere le idee e le immagini di Jean Cocteau, Sacha Guitry, Orson Welles, Marcel Pagnol, Lubitsch, Charlie Chaplin naturalmente e di tutti quelli che senza essere immorali « dubitano della morale degli altri » (Hiroshima mon amour, 1959).



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Da I film della mia vita, Marsilio, Venezia 1992, pp. 15-16.

lunedì 1 giugno 2015

Adolf Loos







Che cosa vale di più? Un chilo di pietra o un chilo d’oro? Sembra una domanda ridicola. Soltanto al commerciante però. L’artista risponderà: per me tutti i materiali sono ugualmente preziosi.
   La Venere di Milo sarebbe ugualmente preziosa, sia se fosse pietrame – a Paro le strade vengono pavimentate con il marmo pario – sia se fosse d’oro. La Madonna Sistina non varrebbe un soldo di più se Raffaello avesse aggiunto ai colori qualche libbra di oro. Il commerciante che si dovesse preoccupare di poter fondere una Venere in caso di bisogno o di raschiare via la Madonna Sistina, ovviamente considererà il problema da un altro punto di vista.
   L’artista ha una sola ambizione: dominare il materiale in modo che la sua opera risulti indipendente dal valore del materiale di cui è fatta. I nostri architetti però non hanno questa ambizione. Per loro un metro quadrato di muro fatto in granito ha più valore di uno intonacato.
   Il granito però non ha alcun valore di per sé. Si trova nelle campagne e chiunque può andarselo a prendere. Oppure forma interi monti, montagne intere, e non si deve far altro che estrarlo. Viene usato per pavimentare le strade, per lastricare le città. È la pietra più comune, il materiale più ordinario che conosciamo. Eppure vi sono persone che lo considerano il materiale più pregiato.
   Queste persone dicono materiale e intendono lavoro. Forza di lavoro dell’uomo, mestiere e arte. Poiché il granito richiede molto lavoro per estrarlo dalle montagne, molto lavoro per trasportarlo fino al luogo di destinazione, lavoro per dargli la forma giusta, lavoro per dargli un aspetto piacevole mediante la levigatura e la politura. Di fronte a un muro di granito levigato il nostro cuore tremerà in un brivido di rispetto reverenziale. Di fronte al materiale? No, di fronte all’opera dell’uomo.
   Il granito sarebbe quindi più prezioso dell’intonaco? Non è ancor detto. Perché una parete decorata a stucco dalla mano di Michelangelo farà ombra alla più levigata parete di granito. Non soltanto la quantità, ma anche la qualità del lavoro è determinante per il valore di un oggetto.



***


   Esiste in America un tipo di verdura di largo consumo: la si serve in tavola come da noi i cavoli o i fagioli. Si chiama egg-plant, che significa pianta-uovo. Anche da noi è stata recentemente immessa sul mercato con il nome di melanzana. Le nostre massaie avranno certamente già notato al mercato delle primizie questi frutti blu, oblunghi. Ma la richiesta è scarsa nonostante siano a buon mercato. Perché non si sa come cucinarle. Questo frutto va trattato come la patata. Vi spiego ora il modo migliore di prepararlo.
   Si sbuccia il frutto e lo si taglia, se è lungo nel senso della lunghezza, se è rotondo, per il largo, in fette alte quattro millimetri. Poi lo si sala e lo si impana nella farina, nell’uovo e nel pane grattugiato. Infine lo si fa cuocere piuttosto a lungo nel burro come una cotoletta.
   Ho stabilito un accordo con il ristorante vegetariano che si trova nella Spiegelgasse n. 8 (ammezzato) affinché per otto giorni consecutivi, a partire dal 15 ottobre, vi si preparino per colazione queste melanzane nel modo suddetto. Forse qualche marito le assaggerà e ne parlerà a sua moglie. Oppure ci andranno le signore stesse. O anche il gestore di qualche ristorante.



............................................................................................................................................      Da Parole nel vuoto, traduzione di Sonia Gessner, prefazione di Joseph Rykwert, Adelphi Edizioni, Milano 1992, pp. 73-74, 173.

venerdì 1 maggio 2015

Francesco Scarabicchi








1980



                                   in memoria di Giorgio Caproni



Prologo

Si decida il contabile del tempo
a restituirci gli anni non vissuti,
tutti i sogni, le cose, i persi sguardi,
le idee che vanno, veloci, a scomparire.
Che si decida presto a rimborsare
quanto ognuno ha mancato,
smarrendo dell’amore il caro nome.




L’aiuola
   per Mark Strand


C’è la corona di conchiglie grandi,
una terra mai mossa, quasi legno,
il piccolo oleandro, una panchina
che forse è stata verde,
un gatto rosso addormentato ai bordi,
ossi di pesca e cardi rinsecchiti.

Dei fasti della corte resta niente,
di quell’impero vegetale è il sonno
che tocca la ringhiera arrugginita,
gli scalini, la piccola fontana.
Ogni beltà è sparita come nube
a cui è negato il più lontano cielo.




Roma


Era luce d’ottobre il pomeriggio,
era il sogno sognato che s’avvera,
tu nella stanza che con calma accendi
la mezza sigaretta assaporando
il grigio fumo tra la bocca e gli occhi,
d’osso e cristallo il viso della voce,
nel labirinto di parole esatte,
asciutte come un lino teso al sole.




Epilogo


Dalla porta del tempo passa il mondo,
dai suoi sentieri ignoti, dalle strette
vie degli istanti che non torneranno.
Dov’è che vanno, allora? A chi votati?
E quanto d’ogni umano si cancella?



mercoledì 1 aprile 2015

Pier Paolo Pasolini







POESIA NELLA SCUOLA


La poesia nella scuola ha una funzione ben chiara e precisa, anche se generalmente la si giudica con molta approssimazione attribuendole dati meramente culturali o sentimentali. A noi sembra che almeno nelle medie inferiori (ma anche, così come stanno le cose, nei Licei) lo studio della poesia non viva che ai margini della cultura, documento ante litteram, strumento senza applicazione, testimonianza che non trova riscontro nei fatti, se fornito senza i suoi presupposti estetici, senza le sue impostazioni filologiche e prospettato molto vagamente nello spazio storico e ambientale. Una poesia letta di per sé (come nelle medie inferiori) o approssimativamente ambientata (come nelle superiori), acquista valori diversi, si isola in un tempo non oggettivamente suo, sì che, pur arricchendosi di inaspettate suggestioni e di suggerimenti spesso perentorii, non rientra in una forma di cultura, nemmeno schematica, anzi è nella maggior parte dei casi la cultura falsa con cui si esce dai Licei e di cui vive il borghese. Ugualmente inattendibile è l’opinione di chi dà allo studio della poesia una qualificazione meramente pedagogica, quasicché la lettura di un testo poetico avesse un valore di esempio, proprio nel senso plutarchiano della parola; la gravità di questo equivoco è documentata dalla scelta dei testi «edificanti», da L’Aquilone del Pascoli, giù fino alle latebre del più basso romanticismo. Certo, per l’imparzialità, non potremmo escludere del tutto dalla lettura della poesia, come funzione educatrice, anche un aspetto culturale (ma in tal caso sono da sfruttarsi e da chiarire quegli elementi culturali, in specie linguistici, che lievitano allo stato di pura suggestione da una lettura isolata) e un aspetto sentimentale, se all’attributo si dà un significato rigido di «educazione sentimentale», in modo che la purezza o la generosità ecc. non risultino dal contenuto di una poesia letta illecitamente a un suo stadio narrativo, aneddotico (a proposito, quando il crocianesimo entrerà nelle scuole? Tutti i giovani insegnanti, costituzionalmente e inconsciamente crociani, anche se male preparati, davanti a una scolaresca, ridivengono scolari riprendendo la tradizione dei loro vecchi professori degni del Cuore); al contrario la purezza, la generosità ecc., ossia l’eco di un’umanità volta a interessi non pratici, deve essere suggerita agli scolari proprio attraverso una interpretazione formale, cioè girando davanti ai loro occhi, quasi con un rudimentale rallentatore, l’operazione poetica, che è sempre una metafora, un passaggio da un ordine sentimentale a un ordine verbale. È chiaro comunque che se l’insegnante non sa quale sia la funzione della poesia nella scuola, accettandone un’interpretazione abitudinaria, farà, leggendola e spiegandola alla lettera, non solo una fatica inutile ma dannosa, rendendo ingiustificata agli occhi dei suoi «barbari» (proprio nel senso greco di alloglotti) scolari l’operazione poetica, questo sommo prodotto della civiltà. Se dunque da questo esame negativo risultano già almeno in parte i valori da scoprire nella lettura di un testo di poesia nella scuola, che sono valori soprattutto esemplativi (un testo diviene una monade in cui si concretano e trovano una forte vita fantastica vasti e originari motivi culturali e psicologici), è chiaro che si vuol dare intanto allo studio della poesia un carattere critico, almeno in nuce. In termini pedagogici, questo studio è strettamente complementare a quello della grammatica e della sintassi, a parte la maggiore altezza dell’esercizio. Ecco allora chiarirsi la funzione della poesia nella scuola come coscienza linguistica, come iniziazione all’inventio, dopo il chiarimento grammaticale, sintattico e fraseologico dell’istituzione linguistica, dell’inventum. Ma se si tien conto che a ogni approfondimento sentimentale, a ogni scoperta interiore corrisponde un approfondimento e una scoperta linguistica, e viceversa, si vedrà quale ulteriore importanza può avere una poesia il cui funzionamento sia così inteso, quando giunga a mettere in movimento il meccanismo mentale che conduce dalla introspezione alla espressione e viceversa. Ecco un preciso compito pedagogico, addirittura profilattico, quando il risultato sia una presa di coscienza e un superamento dell’istinto e dell’abitudine, che conducono il ragazzo ad accorgersi di sé e del suo ambiente.
   Ma quali saranno i testi poetici da leggersi in una scuola media? La risposta è semplice se si pensa che devono essere soprattutto insegnamento di lingua, esempi di metafora, di trascrizione e di invenzione; ecco dunque che quei testi saranno da scegliersi tra quelli dei poeti viventi, che usano una lingua viva non solo come lessico ma proprio come concezione dell’uso espressivo e come scelta dei sentimenti da esprimersi.


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Da Poesia nella scuola, in «Il Mattino del Popolo», 4 luglio 1948. Poi in Pier Paolo Pasolini, Un paese di temporali e di primule, a cura di Nico Naldini, Guanda, Parma 1993, pp. 280-282; ristampato nel 2001.