mercoledì 1 luglio 2015

François Truffaut







   Un giorno del 1942, avevo una gran voglia di vedere Les visiteurs du soir (L’amore e il diavolo, 1942), il film di Marcel Carné arrivato finalmente al mio quartiere, al cinema Pigalle, e decisi di non andare a scuola. Il film mi piacque molto. Ma quella sera stessa una mia zia, che studiava al conservatorio, passò da me per portarmi al cinema. Aveva già fatto la sua scelta: Les visiteurs du soir e, dato che non era proprio il caso di confessare che lo avevo già visto, me lo dovetti rivedere, facendo finta di scoprirlo solo allora. Fu esattamente quel giorno che mi accorsi di quanto era affascinante penetrare sempre più intimamente nell’opera che ci piace fino quasi a provare l’illusione di riviverne la creazione.
   Un anno dopo arrivava Le corbeau (Il corvo, 1943) di Clouzot che mi piacque ancor di più: dalla sua uscita (maggio 1943) alla liberazione, che segnò la sua proibizione, lo avrò visto cinque o sei volte. Più tardi, quando tornò in circolazione, lo rividi più volte all’anno fino a conoscerne i dialoghi a memoria, dialoghi molto più spinti di quelli degli altri film e comprendenti un centinaio di parole forti di cui andavo poco a poco scoprendo il significato; tutto l’intreccio di Le corbeau era basato su un’epidemia di lettere anonime che denunciavano aborti, adulteri e corruzioni varie, fornendo un’immagine abbastanza fedele di quello che vedevo attorno a me, guerra, dopoguerra, collaborazionismo, delazione, mercato nero, espedienti vari e cinismo.
   I miei primi duecento film li ho visti in clandestinità, disertando la scuola o entrando in sala senza pagare – attraverso le uscite di sicurezza o le finestre dei gabinetti – oppure approfittando, di sera, dell’assenza dei miei genitori e con la necessità, quindi, di trovarmi a letto fingendo di dormire al loro rientro. Pagavo questo piacere con forti mali di pancia, lo stomaco imbarazzato, i capelli dritti dalla paura, tutto preso da un senso di colpa che non poteva che sommarsi alle emozioni che mi procurava lo spettacolo.
   Sentivo un grande bisogno di penetrare nei film e ci riuscivo avvicinandomi sempre di più allo schermo per astrarmi dalla sala; evitavo i film in costume, di guerra e western perché mi era difficile identificarmi; per eliminazione non mi restavano che i polizieschi e i film d’amore; contrariamente ai piccoli spettatori della mia età, non mi identificavo con gli eroi « eroici » ma con i personaggi handicappati e più sistematicamente con tutti quelli che si trovavano in colpa. Si capirà perché mi abbia sedotto, all’inizio, l’opera di Alfred Hitchcock interamente consacrata alla paura, e successivamente quella di Jean Renoir tutta rivolta alla comprensione: « Ciò che è terribile su questa terra è che tutti hanno le loro ragioni » (La règle du jeu, 1939). La porta era aperta: ero pronto a ricevere le idee e le immagini di Jean Cocteau, Sacha Guitry, Orson Welles, Marcel Pagnol, Lubitsch, Charlie Chaplin naturalmente e di tutti quelli che senza essere immorali « dubitano della morale degli altri » (Hiroshima mon amour, 1959).



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Da I film della mia vita, Marsilio, Venezia 1992, pp. 15-16.