Lettera a Hans Bender
La ringrazio per la
Sua lettera del 15 maggio e per l’amichevole invito a collaborare alla Sua
antologia Il mio poema è il mio coltello.
Ricordo di averLe
detto a suo tempo che il poeta, non appena il poema sia realmente compiuto,
viene di nuovo esentato dalla sua iniziale complicità. Oggi cercherei di
formulare in altro modo questo convincimento, ovvero di differenziarlo; ma in
sostanza continuo sempre ad avere questa – vecchia – opinione. Certo, esiste
anche quello che oggi tanto volentieri e sbrigativamente si designa come artigianato. Senonché – mi permetta
codesta abbreviazione del mio pensiero e della mia esperienza – l’artigianato,
come in genere la pulizia nel mestiere, è presupposto di qualsiasi poesia. Questo artigianato certissimamente non
sta su un terreno d’oro[1] – e
chissà poi se ha un qualunque terreno. Esso ha i suoi baratri e le sue
profondità – più d’uno (ahimè, io non sono tra questi) ha perfino un nome per
tutto ciò.
Un manufatto – è
questione di mani. E quelle mani poi appartengono soltanto a un uomo, cioè a un’unica mortale
creatura, la quale con la voce e con il suo silenzio cerca di aprirsi una
strada.
Solo mani veraci
scrivono poesie veraci. Io non vedo nessuna differenza di principio tra una
stretta di mano e un poema.
E non ci si venga
adesso a parlare di «poiein»
e cose simili. Ciò aveva, con tutte le sue attinenze vicine e lontane,
tutt’altro significato che nel contesto attuale.
Certo, esistono modi per esercitarsi – in
senso spirituale, caro Hans Bender!
E a margine, a ogni angolo di strada della lirica, c’è questo andar
sperimentando con il cosiddetto materiale verbale. Le poesie, sono altresì dei
doni – doni per chi sta all’erta. Doni che implicano destino.
«Come si fanno le poesie?»
Per qualche tempo, anni addietro, io ho
potuto vedere e più tardi osservare attentamente da una certa distanza come il
«fare» diventi, prima, fattura, e un po’ alla volta fattucchiera. Già, esiste
anche questo, Lei forse lo sa. – Non
succede per caso.
Viviamo sotto cieli oscuri, e – di uomini ce
n’è pochi. Proprio per questo ci sono anche così poche poesie. Le speranze che
ho ancora non sono grandi; cerco di tenermi in serbo quanto mi è rimasto.
Con tutti i migliori auguri per Lei e il Suo
lavoro
Suo
Paul Celan
Parigi, 18 maggio 1960.
[1] La frase
risulta comprensibile solo se si tiene presente un antico proverbio secondo cui
un buon mestiere, una volta acquisito, è sempre redditizio. Sebastian Franck,
nei suoi Proverbi pubblicati a
Francoforte nel 1560, lo cita nella versione attribuita all’umanista Johannes
Agricola: «Ein Handwerk
hat einen güldin Boden» [Un artigianato ha un terreno d’oro].
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Da La verità della poesia, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Einaudi, Torino 1993, pp. 57-58.