XV. L’avversione alla letteratura contemporanea
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In verità, quando si guarda allo spettacolo
della letteratura viva, o meglio dei fisicamente viventi della letteratura,
come anche la chiamano, militante, si prova un frequente senso di repugnanza e
un rimprovero che risuona dentro noi stessi a non attardarci a contemplarlo,
ché sarebbe « bassa voglia ». Scrittori mediocrissimi, « anime sciocche », vi
si pavoneggiano tra le lodi o le esaltazioni di altri bramosi di porsi al loro
fianco e rizzarsi bene in vista. Discussioni a perdita di fiato vi s’intessono
sull’arte e sui suoi fini e i suoi mezzi, e delineazioni di programmi e di
scuole, che sono prove di lamentevole ignoranza e di volgarità nei concetti. Le
rare opere di pregio e i rari ingegni nati all’arte sono messi alla pari degli
altri che non hanno nessun merito e nessun vigore, quando addirittura non
vengano posposti: il demimonde, la
società equivoca, soverchia le monde,
il vero mondo, cioè la piccola società eletta. Un tono generale di pettegolezzo
e di intrigo regna in quella cerchia, che dovrebbe essere di poesia e di
letteratura; l’« arrivismo » vi si caccia dentro, disertando la cerchia che
meglio gli converrebbe degli affari e dei lucri. È ben comprensibile il
disgusto che gli amatori veraci della poesia e della letteratura provano e che
li fa rifuggire da quei ridotti e restare o tornare in fretta colà dove stanno
eretti i templa serena. Molti,
segnatamente, come è naturale, giovani sono affascinati e presi da quel bollore
di vita loro vicino; ma i più intelligenti, col riflettere, con lo studiare,
col maturarsi alla serietà del fare, conosciutolo per quello che è, lo
ripongono tra le loro esperienze e passano a più degna operosità, poetica o non
poetica, letteraria o non letteraria che sia.
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Brano tratto dal libro di Croce già segnalato nel precedente post (pp. 302-303).