I.
Ancora della lettura poetica di Dante
…
Ma
aggiungerò che non mi pare che si debba nascondere che l’assunto del viaggio
oltremondano e i modi in cui Dante fu astretto a immaginarlo, facciano sorgere
talora il sentimento di difficoltà e contradizioni in cui urta e di tentativi e
sforzi di superarle, che non tornano a pieno persuasivi, e poiché egli vi si
ostina o si cava come può d’imbarazzo, provochino nei lettori l’accennarsi di
un lieve sorriso. Come mai (si pensa, ma forse non piace dire) Dante osò
dannare all’inferno, inviare ai castighi educativi del purgatorio o collocare
nel paradiso, creature umane, storicamente individuate, con sentenze che solo
Dio poteva pronunziare, egli che pur sapeva, e faceva rammentare con gravi
parole da Manfredi, che non vi ha giudizî sulla vita vissuta dai singoli
individui che possano condurre con sicurezza a conclusioni di questa sorta,
perché, quando ogni altro manchi, resta un momento ultimo, quello della morte,
in cui la creatura può rivolgersi direttamente al Creatore e a lui aprirsi e
lui pregare e da lui ottenere perdono? La Chiesa stessa cattolica non credo che
abbia mai negato o limitato questo diritto dell’uomo, che è insieme diritto di
Dio: ancorché gli ecclesiastici abbiano talvolta cacciato nell’inferno quelli
che in vita intaccarono o calpestarono loro interessi politici o economici,
come usarono, per esempio, con Carlo Martello, nonostante che avesse con le
vittorie di Tours e di Narbonne impedito all’invasione e alla fede islamitica
di allargarsi in Europa[1], e
ancorché, per un altro verso, abbiano sbagliato in certe loro santificazioni e
debbano sempre sospettare che qualcuno dei loro santi possa ripetere a loro il
gesto di quel dottore medievale santificato in Parigi, che si levò dal
cataletto per gridare agli astanti nella chiesa di non affliggerlo con le loro
orazioni, perché egli « iusto iudicio Dei
» stava all’inferno. E Dante assunse come cosa a lui lecita, con una sorta
di disinvoltura o di candore, le parti di Dio, unicamente perché il suo
pensiero etico e religioso e la varia e ricca poesia che in lui tumultuava
volle incanalare nella forma letteraria della visione di un altro mondo, che lo
portava bensí a decretare dannati taluni, perfino quando ancora vivevano nel
mondo e mangiavano e bevevano e dormivano e vestivano panni e perciò si potevano
pentire e conciliare con Dio, ma con ciò si dava una agevolezza che altrimenti
gli sarebbe mancata. Ma né egli circondò i suoi dannati di sacro orrore, ché
anzi s’intrattenne con loro placidamente come se stessero non in obbrobriose e
atroci camere di tortura, ma in luoghi nei quali potessero attendere a legare
conversazioni sulle cose del mondo, passionalmente e anche nobilmente da loro
risentite, e tributò a questi suoi personaggi affetto e ammirazione; né,
d’altro lato, quando l’animo così gli diceva, si restrinse sempre a lasciarli
ai più che bastevoli castighi che di continuo pativano, perché, come si sa,
gioí a volte dei loro patimenti, incitò a tormentarli con maggiore crudeltà,
stese egli stesso la mano per afferrare per la cuticagna e strappare i capelli
a Bocca degli Abati, che non chiedeva se non di essere dimenticato sulla terra.
È naturale che innanzi a questo comportamento, al quale era ora costretto ora
incoraggiato dalla forma letteraria da lui adoprata e che gli permetteva
finanche lo sfogo delle sue private vendette e capricci, le labbra del lettore
si muovano qualche volta « un poco a riso », come a lui era avvenuto nell’osservare
gli atti e le parole di Belacqua, e che il lettore o il critico esca in qualche
parola conforme a questo solletico interiore; perché grande è la riverenza che
Dante ispira, ma essa non richiede che gli si stia attorno come il chierichetto
che serve la messa: atteggiamento che meglio conveniva ai « dantisti », pei
quali il principale e l’essenziale era il romanzo teologico e il secondario la
poesia, laddove per noi, lettori di poesia, tale rapporto, nella sua opera
composita, si presenta invertito. Quel sorriso nasce in noi altrettanto
spontaneo, quanto l’elevazione alla poesia che Dante viene creando, e bisogna lasciarlo
passare come tutto ciò che è sincero ed è vero.
Tanto più che io ho un sospetto dentro di me
e sulle labbra una domanda, che vorrei discretamente muovere: se si sia proprio
sicuri che Dante a certe sue trovate sull’altro mondo non rischiarasse e
allietasse sé stesso con l’ironia. Perché no? Perché era Dante (si risponderà).
Ma era Dante come l’hanno costruito nella loro immaginazione gli ammiratori e
panegiristi; e certamente nella realtà egli fu più vario e più ricco di questo
suo ritratto.
…
[1]
Si vedano altri casi di tali pie condanne politiche all’inferno in D’ANCONA, I precursori di Dante (Firenze, Sansoni,
1874), pp. 70-82.
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In Letture di poeti, Editori Laterza, Bari 1966, pp. 20-22. Nelle «Opere di Benedetto Croce», Scritti di storia letteraria e politica, XXXIX, prima edizione 1950.