giovedì 21 marzo 2013

Benedetto Croce











I. Ancora della lettura poetica di Dante


Ma aggiungerò che non mi pare che si debba nascondere che l’assunto del viaggio oltremondano e i modi in cui Dante fu astretto a immaginarlo, facciano sorgere talora il sentimento di difficoltà e contradizioni in cui urta e di tentativi e sforzi di superarle, che non tornano a pieno persuasivi, e poiché egli vi si ostina o si cava come può d’imbarazzo, provochino nei lettori l’accennarsi di un lieve sorriso. Come mai (si pensa, ma forse non piace dire) Dante osò dannare all’inferno, inviare ai castighi educativi del purgatorio o collocare nel paradiso, creature umane, storicamente individuate, con sentenze che solo Dio poteva pronunziare, egli che pur sapeva, e faceva rammentare con gravi parole da Manfredi, che non vi ha giudizî sulla vita vissuta dai singoli individui che possano condurre con sicurezza a conclusioni di questa sorta, perché, quando ogni altro manchi, resta un momento ultimo, quello della morte, in cui la creatura può rivolgersi direttamente al Creatore e a lui aprirsi e lui pregare e da lui ottenere perdono? La Chiesa stessa cattolica non credo che abbia mai negato o limitato questo diritto dell’uomo, che è insieme diritto di Dio: ancorché gli ecclesiastici abbiano talvolta cacciato nell’inferno quelli che in vita intaccarono o calpestarono loro interessi politici o economici, come usarono, per esempio, con Carlo Martello, nonostante che avesse con le vittorie di Tours e di Narbonne impedito all’invasione e alla fede islamitica di allargarsi in Europa[1], e ancorché, per un altro verso, abbiano sbagliato in certe loro santificazioni e debbano sempre sospettare che qualcuno dei loro santi possa ripetere a loro il gesto di quel dottore medievale santificato in Parigi, che si levò dal cataletto per gridare agli astanti nella chiesa di non affliggerlo con le loro orazioni, perché egli « iusto iudicio Dei » stava all’inferno. E Dante assunse come cosa a lui lecita, con una sorta di disinvoltura o di candore, le parti di Dio, unicamente perché il suo pensiero etico e religioso e la varia e ricca poesia che in lui tumultuava volle incanalare nella forma letteraria della visione di un altro mondo, che lo portava bensí a decretare dannati taluni, perfino quando ancora vivevano nel mondo e mangiavano e bevevano e dormivano e vestivano panni e perciò si potevano pentire e conciliare con Dio, ma con ciò si dava una agevolezza che altrimenti gli sarebbe mancata. Ma né egli circondò i suoi dannati di sacro orrore, ché anzi s’intrattenne con loro placidamente come se stessero non in obbrobriose e atroci camere di tortura, ma in luoghi nei quali potessero attendere a legare conversazioni sulle cose del mondo, passionalmente e anche nobilmente da loro risentite, e tributò a questi suoi personaggi affetto e ammirazione; né, d’altro lato, quando l’animo così gli diceva, si restrinse sempre a lasciarli ai più che bastevoli castighi che di continuo pativano, perché, come si sa, gioí a volte dei loro patimenti, incitò a tormentarli con maggiore crudeltà, stese egli stesso la mano per afferrare per la cuticagna e strappare i capelli a Bocca degli Abati, che non chiedeva se non di essere dimenticato sulla terra. È naturale che innanzi a questo comportamento, al quale era ora costretto ora incoraggiato dalla forma letteraria da lui adoprata e che gli permetteva finanche lo sfogo delle sue private vendette e capricci, le labbra del lettore si muovano qualche volta « un poco a riso », come a lui era avvenuto nell’osservare gli atti e le parole di Belacqua, e che il lettore o il critico esca in qualche parola conforme a questo solletico interiore; perché grande è la riverenza che Dante ispira, ma essa non richiede che gli si stia attorno come il chierichetto che serve la messa: atteggiamento che meglio conveniva ai « dantisti », pei quali il principale e l’essenziale era il romanzo teologico e il secondario la poesia, laddove per noi, lettori di poesia, tale rapporto, nella sua opera composita, si presenta invertito. Quel sorriso nasce in noi altrettanto spontaneo, quanto l’elevazione alla poesia che Dante viene creando, e bisogna lasciarlo passare come tutto ciò che è sincero ed è vero.
   Tanto più che io ho un sospetto dentro di me e sulle labbra una domanda, che vorrei discretamente muovere: se si sia proprio sicuri che Dante a certe sue trovate sull’altro mondo non rischiarasse e allietasse sé stesso con l’ironia. Perché no? Perché era Dante (si risponderà). Ma era Dante come l’hanno costruito nella loro immaginazione gli ammiratori e panegiristi; e certamente nella realtà egli fu più vario e più ricco di questo suo ritratto.






[1] Si vedano altri casi di tali pie condanne politiche all’inferno in D’ANCONA, I precursori di Dante (Firenze, Sansoni, 1874), pp. 70-82.


………………………………………………………………………………………………………….....................
In Letture di poeti, Editori Laterza, Bari 1966, pp. 20-22. Nelle «Opere di Benedetto Croce», Scritti di storia letteraria e politica, XXXIX, prima edizione 1950.