lunedì 28 gennaio 2013

Karl Kraus






Lo scrivere non sarebbe altro che la capacità di somministrare con le parole un’opinione al pubblico? Allora la pittura dovrebbe essere l’arte di dire una opinione con i colori. Ma i giornalisti della pittura si chiamano appunto imbianchini. E io credo che uno scrittore sia colui che dice al pubblico un’opera d’arte. L’onore più grande fino a oggi me lo concesse un lettore che mi confessò con imbarazzo che riusciva a capire le mie cose solo alla seconda lettura. Esitava a dirmi che non riusciva bene a cavarsela col mio linguaggio. Era un conoscitore e non lo sapeva. Le lodi del mio stile mi lasciano indifferente, ma i rimproveri che mi vengono rivolti mi renderanno presto superbo. Da molto tempo avevo realmente una certa paura che si potesse provare soddisfazione già alla prima lettura dei miei scritti. E che? Una proposizione deve servire al pubblico perché ci si sciacqui la bocca? I feuilletonisti, che scrivono in lingua tedesca, partono in forte vantaggio rispetto agli scrittori, che scrivono dalla lingua tedesca. Vincono al primo sguardo e deludono il secondo: è un po’ come si stesse dietro le quinte e si vedesse che tutto è di cartone. Negli altri invece la prima lettura è un po’ come un velo che copre la scena. E allora chi dovrebbe applaudire? Quelli fischiano prima di vedere la scena. Così si comportano i più; perché non hanno tempo. Davanti ai quadri ammettono volentieri che non si tratta soltanto della raffigurazione di un fatto che lo sguardo coglie subito: poi si sforzano di aggiungere un secondo sguardo per avvertire qualcosa anche dell’arte dei colori. Ma un’arte della costruzione di proposizioni? Se si dice loro che esiste una cosa del genere, quelli pensano subito all’osservanza delle leggi della lingua.

Nella scienza della lingua un autore non deve essere infallibile. Anche l’uso di materiale impuro può giovare a un fine artistico. Io non evito espressioni vernacole, se servono a un’intenzione satirica. L’arguzia, che lavora con rappresentazioni date e presuppone una terminologia corrente, preferisce la lingua in uso alla lingua giusta, e nulla le è più estraneo dell’aspirazione al purismo. Si tratta di arte del linguaggio. Che una cosa del genere esista viene avvertito da cinque persone su mille. Gli altri vedono una opinione e appesa a essa una battuta di spirito che si può mettere comodamente all’occhiello. Non sospettano nulla del mistero della crescita organica. Valutano solo il materiale. A partire dalla rappresentazione più piatta si può raggiungere l’effetto più profondo: davanti allo sguardo del lettore che ho descritto tutto tornerà a essere piatto. La banalità come elemento della forma satirica: un calembour le resta in mano.

Bisogna leggere due volte i miei lavori, per avvicinarsi a essi. Ma non ho nulla in contrario se li si legge tre volte. Comunque preferisco che non li si legga affatto, se li si deve leggere una volta sola. Non vorrei prendere alcuna responsabilità per le congestioni di una testa vuota che non ha tempo.

Bisogna leggere due volte tutti gli scrittori, i buoni e i cattivi. Si riconosceranno i primi, si smaschereranno i secondi.

Ci sono certi scrittori che riescono a esprimere già in venti pagine cose per cui talvolta mi ci vogliono addirittura due righe.

Un aforisma non si può dettare su nessuna macchina da scrivere. Ci vorrebbe troppo tempo.

Un aforisma non ha bisogno di esser vero, ma deve scavalcare la verità. Con un passo solo deve saltarla.


............................................................................................................................................Da Detti e contraddetti, a cura e con un saggio di Roberto Calasso, Adelphi Edizioni, Milano, IV edizione gli Adelphi, aprile 2002, pp. 133-134, 136, 137.