Al di
là delle Alpi
… Il
carattere architettonico, monumentale, delle città italiane, in uno col loro
stato di abbandono, alla fin fine viene a noia. L’uomo della nostra epoca non
vi si sente in casa propria, ma in uno scomodo palco di teatro, sulla cui scena
figurano grandiose decorazioni.
In esse la vita non si è equilibrata, non è
semplice né comoda. Il tono è forzato, in ogni cosa si ritrova la declamazione
e, per giunta, la declamazione italiana (chi ha sentito una lettura di Dante sa
che cosa significhi). C’è dappertutto quell’esagerazione che era di moda presso
i filosofi moscoviti e gli artisti tedeschi eruditi; tutto si prende dall’alto,
dal più alto punto di vista. È una forzatura che esclude la naturalezza ed è
sempre pronta a resistere e a predicar sentenze. L’entusiasmo cronico stanca,
irrita.
L’individuo non ha sempre voglia di
meravigliarsi, di elevarsi spiritualmente, di essere virtuoso, commosso, e di
trasportarsi col pensiero in un remoto passato; ma l’Italia non cala da un
certo diapason e ricorda di continuo che la sua via non è semplicemente una
via, ma un monumento; che le sue piazze non sono fatte solo per camminarci, ma
per studiarle.
Insieme con ciò, tutto quello che è
particolarmente squisito e grandioso in Italia (e forse ovunque), confina con
l’insensato e con l’assurdo o, per lo meno, fa pensare all’infanzia… La piazza
della Signoria è la stanza dei bambini del popolo fiorentino; il nonnino
Buonarroti e lo zietto Cellini gli hanno regalato dei giocattoli di marmo e di
bronzo, e il popolo li ha messi in mostra sulla piazza dove tante volte scorse
il sangue e si decise il suo destino senza il benché minimo nesso col David o
col Perseo. Qui una città nell’acqua, che per le sue strade ci possono andare a
spasso pesciolini e branzini… Là una città fatta di interstizi di pietre, che
bisogna essere un millepiedi o una lucertola per strisciare e correre sul fondo
angusto, tra le rupi formate dai palazzi… là ancora una selva di marmo. Quale
mente osò creare il piano di quella foresta petrosa, denominata il Duomo di
Milano, di quella montagna di stalattiti? Quale mente audace ebbe l’audacia di
realizzare il sogno di un architetto insensato? … e chi mai diede il denaro,
somme immense, inaudite?
Gli uomini dànno denaro soltanto per le cose
non necessarie. Ciò che hanno di più caro sono le loro mète fantastiche, più
care del pane quotidiano, più care del loro tornaconto. All’egoismo occorre
abituarsi come all’umanitarismo. Ma la fantasia trasporta senza educazione,
infiamma senza considerazioni. I secoli di fede furono secoli di miracoli.
Una città un po’ più nuova, ma meno storica
e decorativa è Torino.
« Sicché vi schizza addosso la sua prosa?
»
« Già, ma è più facile viverci,
proprio perché è semplicemente una città, una che non è tale nel suo ricordo,
ma una città per la vita di ogni giorno, per l’oggi; in essa le vie non
rappresentano un museo archeologico, non vi ammoniscono ad ogni passo memento mori; guardate la sua
popolazione operaia, la sua fisionomia rude come l’aria alpina, e vi
accorgerete che questo è un ceppo più energico dei fiorentini, dei veneziani,
e, forse, ancor più risoluto dei genovesi. »
Questi ultimi, tra l’altro, non li conosco.
È difficile osservarli: vi guizzano di continuo davanti agli occhi, corrono, si
affaccendano, scorazzano di qua e di là, si affrettano. I vicoli verso il mare
brulicano di gente, ma quelli che stanno fermi non sono genovesi, sono marinai
di tutti i mari e di tutti gli oceani, piloti, capitani. Qui una campana, là
un’altra campana: Partenza! Partenza! Una parte del formicaio si dà da fare,
gli uni caricano, gli altri scaricano.
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Da Passato e pensieri, traduzione e
introduzione di Clara Coïsson, Mondadori, Milano 1970.