martedì 27 novembre 2012

Lucio Anneo Seneca








IV.   Possiamo accusare a lungo il destino, ma non possiamo mutarlo: rimane fisso e inesorabile. Non lo muove nessuna invettiva, nessun pianto, nessun motivo: non risparmia nessuno, non perdona. Risparmiamo quindi le lacrime che non giovano a nulla: è più facile che un tale dolore ci accosti a loro che li riporti a noi. E se ci tormenta senza giovarci, bisogna rifiutarlo dal primo istante e tenere l’animo lontano dalle consolazioni illusorie e dalla malsana brama di soffrire. [2] Perché, se la ragione non metterà fine alle nostre lacrime, non la metterà certo la fortuna. Orsù, guarda tutti i mortali che ti stanno attorno: dovunque c’è abbondante e continua messe di afflizione. Uno è spinto al quotidiano lavoro dalla povertà faticosa, un altro è agitato dall’ambizione mai soddisfatta: uno teme la ricchezza che aveva desiderato ed è vittima dei suoi voti: uno è tormentato dalla solitudine, uno dal favore che gode, un altro dalla folla che gli assedia il vestibolo: costui si duole d’avere figli, quello d’averli perduti. Ci mancheranno le lacrime prima che le occasioni di versarle. [3] Non vedi che genere di vita ci ha riservato la natura, quando ha stabilito che entrassimo nell’esistenza piangendo? È questo il primo atto con cui veniamo al mondo: ad esso risponde concorde la serie degli anni successivi. Così passiamo la vita e perciò dobbiamo compiere con misura un atto che ci si impone di frequente e, considerando le tante cose dolorose che di dietro ci incalzano, dobbiamo, se non proprio porre un termine alle lacrime, per lo meno, tenerle in riserva. Di niente s’ha da essere avari più che di queste, il cui uso è tanto comune.


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Dalla Consolatoria a Polibio, traduzione di Pino Zanni Ulisse, in I dialoghi a cura di Renato Laurenti, Edizione CDE, Milano 1978.