"Finestre" di Gabriele Zani
Oggi c’è due tipi di riviste possibili: il tipo cinematografico, "magazine", bazar di curiosità senza firma, da una parte: dall’altra la rivista "persona", che esprime solo e sempre un uomo; o un gruppo, una famiglia di spiriti ben definita. (Renato Serra, da una lettera a Luigi Ambrosini, datata Cesena, marzo 1910)
mercoledì 13 agosto 2025
Jean Robaey
sabato 12 luglio 2025
g.z.
martedì 1 luglio 2025
Giampiero Neri
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Milano, aprile 2014 |
Ricordi di un’amicizia
Era il 2001 quando Giampiero Neri, al quale avevo inviato la mia raccolta di poesie I rimanenti, rispose a giro di Poste dicendomi che aprendo il libro a una certa pagina aveva “subito sentito che eravamo amici”. E cosi è stato.
Un’amicizia sincera, aperta all’ascolto reciproco, vissuta, bontà sua, alla pari, nonostante le differenze d’età e di cultura (nel 2001 Neri aveva 74 anni ed era già un poeta affermato, mentre io solo 42, e dovevo ancora farne di strada). Un’amicizia presto diventata un sodalizio (in seguito abbiamo a più riprese scritto pubblicamente l’uno dell’altro) che continua, come sta a testimoniare questo articolo.
Ovviamente, lui a Milano e io a Cesena, erano più le telefonate che gli incontri. A Milano erano incontri frettolosi, giusti appena per pranzare insieme in uno dei ristoranti di pesce nei dintorni della sua casa di Piazzale Libia. A Erba, dove trascorreva i mesi estivi nella casa di villeggiatura, avevo invece la possibilità di fermarmi per due tre giorni, pernottavo nella vicina Canzo, e di solito mi portava a mangiare da Negri, all’aperto, in riva al lago di Pusiano.
Da lì si poteva scorgere l’abitato di Bosisio-Parini e, tra una chiacchierata e l’altra, a Giampiero piaceva rammentarmi qualche verso esemplare del Parini. Usciti dal ristorante, una volta ci spingemmo fino a Longone al Segrino, a vedere ciò che rimaneva della fastosa villa della famiglia Gadda, l’odiata villa de La cognizione del dolore, l’opera che Neri più apprezzava del suo sventurato e inconsolabile conterraneo.
L’ultima volta che ho visto Giampiero è stato proprio a Erba, davanti a casa sua, poco prima di risalire sulla mia auto e far ritorno a Cesena. Ricordo anche il giorno preciso, perché di lì a poco scrissi le due righe promemoria che seguono.
Era il 2 luglio 2019. Ci salutammo commentando le bellezze del luogo e la gente, non proprio ospitale. «Vai adagio», furono le sue ultime parole, come una carezza.
A tutti i consigli che gli chiedevo, soprattutto riguardo alle poesie che andavo scrivendo, egli quasi mai rispondeva fornendomi suggerimenti tecnici, sostituzioni, modifiche, ma piuttosto attraverso inviti a ripensare più attentamente a quanto avevo scritto, una frase, una parola, mirati a farmi riflettere. Inviti a fin di bene, che ho sempre accettato di buon grado, e senza mai pentirmene. L’unico che non ho ascoltato fu proprio in quei giorni d’estate del 2019 quando, lasciandoci, sapevamo entrambi che forse non ci saremmo più rivisti, perché, anche se Giampiero disapprovava, avevo deciso di trasferirmi alle Canarie, dove tuttora vivo.
Un’altra volta, ricordo, quando gli dissi che grazie a lui stavo imparando a scrivere molto meglio, mi stupì confidandomi che era lui che aveva appreso molte cose da me, più lui da me che io da lui, incredibile ma vero! Ma Giampiero era questo, un maestro atipico, umile, generoso, altruista, con un occhio preferenziale verso i più deboli.
Tutte cose che mi sono tornate in mente leggendo Utopie, l’ultimo libro, uscito nel marzo del 2023, un mese dopo la morte, ma di cui Neri riuscì a rivedere le bozze, come sappiamo dal suo amico e biografo Alessandro Rivali, direttore delle Edizioni Ares, che lo ha pubblicato. Ci tenevo molto a leggerlo, ma siccome alle Canarie di libri italiani non se ne vedono, me lo sono fatto ordinare e spedire dall’Italia.
L’ho letto e riletto in poche ore, e si tratta di “un vero testamento spirituale”, come giustamente si dice nel risvolto di copertina. Nel contempo è anche, posso aggiungere, il tentativo di meglio definire, e quindi di inserire in extremis alcuni tasselli ancora ritenuti mancanti a quell’unico libro di cui Neri si considerava autore, come dichiarò in diverse occasioni, e a cui ha lavorato finché ha potuto, appunto.
A “Finestre”, come il lettore potrà notare, Giampiero collaborò più volte, nel 2011 anche con una Piccola intervista, in cui affermava:
Alla verità si arriva cercando in se stessi. Non ci sono maestri. Ognuno di noi è responsabile di quello che pensa e dice. Dobbiamo dunque abituarci a criticare le nostre idee, ossia sottoporle al vaglio di una nostra rielaborazione critica. Come usiamo fare con i nostri “versi”, che possiamo sottoporre anche al giudizio di altri, ma il collaudo definitivo rimane pur sempre il nostro.
Chiudo proponendo il testo che si trova a p. 99 di Utopie. Ed ecco che ritorna la verità, come un mantra induista o, se si preferisce, a riconferma del biblico “niente di nuovo sotto il sole”.
Deve solo rispondere al bisogno di verità.
mercoledì 18 giugno 2025
Marco Ferri
Nella scia di Vecchi scemi che presentava tredici “racconti”, è appena uscito, ancora per le edizioni peQuod, Le cose non sono più come prima, che stavolta ne propone ventuno. Benché tra l’una e l’altra opera siano trascorsi otto anni, sembra un giorno, i due libri si somigliano come fratelli siamesi. Il fatto è che Ferri, che ha pubblicato il suo primo vero libro, di poesie, Prove e variazioni, a trentacinque anni, ha una bibliografia che si legge in un minuto tanto è scarna e cadenzata, e che insomma, d’abitudine pubblica poco, e/ma sempre a colpo sicuro, come sanno i suoi affezionati lettori.
Perciò francamente non si può dire quale dei due libri sia riuscito meglio, nel senso che c’è una continuità profonda tra i due, ossia non di mera superficie, dunque non tanto perché a p. 29 del secondo ricompaiono, per esempio, gli altri vecchi scemi del primo, e neppure in ragione della scrittura fresca, senza orpelli, quasi parlata che contraddistingue Ferri e che quindi, ormai, non è più una novità. Una fedeltà profonda, ripeto, interna ai testi, di gusti, idee, sentimenti, nel solco scavato da una resilienza (resistenza, si sarebbe detto anni fa) ai tempi che mutano, in bene o in peggio, che ci piaccia o meno, come dichiara senza alcuna enfasi il didascalico titolo, Le cose non sono più come prima.
E se insisto a mettere tra virgolette il termine “racconti” (così vengono chiamati, ma appunto senza virgolette, nei risvolti anonimi di copertina di entrambi i libri) è perché, come già notai a suo tempo per Vecchi scemi, il termine “racconti” mi pare una definizione di comodo, utile certo a catalogare i testi, a etichettarli in qualche modo, ma a me non sembrano racconti in senso stretto, come se ne scrivevano e leggevano fino ai primi del Novecento, sicché preferisco definirli scritti, opere, testi, termini certo generici ma anche, ritengo, meno fuorvianti.
C’è tutto Marco Ferri in questi testi, il poeta, l’intellettuale, l’ex bibliotecario, l’uomo con le sue sofferte verità. Nonostante l’autore si guardi bene dal riferirsi direttamente a sé stesso, sono i suoi personaggi che qua e là ce lo ricordano, di volta in volta trasognati o meditabondi, monologanti o svagati, o intenti a barcamenarsi in autoanalisi. Tuttavia l’immedesimazione di Ferri nei suoi personaggi è tale che anche i lettori vi si potranno riconoscere, perché comunque hanno in dono una vita propria e si rivolgono ad ognuno di noi, alla coscienza di ognuno di noi. Non a caso uno dei testi, richiamando ironicamente Pirandello, si intitola L’autore in cerca del personaggio.
Sono personaggi per lo più simpatici o, forse meglio, “persone” simpatiche, quelle tirate in ballo da Ferri, spesso soggetti perduti e perdenti, sconfitti dal passato come dal presente, e per giunta senza un futuro in cui credere. Talvolta fanno sorridere, non proprio ridere a pensarci un po’, come i Bouvard e Pecuchet di Flaubert, citati da Marco a p. 157. Qui di seguito, in chiusura, un paio di excerpta.
g.z.