mercoledì 13 agosto 2025

Jean Robaey


Anche senza Cesena… 

     Anche senza Cesena Gabriele Zani rimane il poeta che era e che rimarrà, anche senza la sua città natale (che d’altronde, come spiega qui nella prosa Case, non conosceva da piccolo e soprattutto non riconosceva come sua). Città per me invece mitica: fu la città di Renato Serra, critico-scrittore ossia scrittore nel momento in cui faceva il critico. Vicino a Cesena abitava Ferruccio Benzoni, mentore e finissimo lettore di Zani; un altro fu il milanese Neri, ricordato in questa breve silloge (in una poesia, A Giampiero (Neri), che ricorda la confessione “Si fanno versi per scrollare un peso” di Sereni). Proprio Neri, mi ha confidato Gabriele, era preoccupato per questa partenza dall’Italia per le Canarie. Preoccupato ero anch’io, o meglio quasi offeso, abbandonato e tradito: in qualche modo Gabriele rappresentava per me e rappresenta tuttora la lingua poetica italiana quasi a livello puro, di un poeta cioè che scrive al di fuori di ogni critica se non di ogni poesia ufficiale. Il suo rapporto è, intensissimo, con alcuni poeti che predilige: Sereni, Benzoni, Neri, Orelli e pochi altri. 
     L’occhio non è cambiato, che sa cogliere minimi particolari per farne segni di vita superiori alla stessa nostra vita: “Uno sbocciare di fanciulle / che corrono giulive / fanno del lungomare tra le palme / il francobollo sulla cartolina” (Francobollo). Notevole il modo in cui il poeta riesce a riesumare il passato per entrare nel cuore, anche mitico, dell’isola e dei suoi abitanti: si vedano Tenerife, la poesia che dà il titolo alla raccolta (“Leggenda narra che non sei tu a eleggere Tenerife…”) e Dei Guanci, il cui titolo si espande (secondo una rispettabile tradizione) nel verso immediatamente successivo: “si conservano disegni, utensili, ossa”. Fino al gioco semiserio di Duolingo: “Ya soy mayor, así que por fin puedo divertirme”. 
     Sì, l’occhio è ancora quello: “con qualche commovente ricordo in più”… 

                                                                                                                                 Jean Robaey

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Conosco Jean Robaey... 

Conosco Jean Robaey grazie a una felice intuizione, e poi per intercessione del mio primo mentore Renato Turci, che da Cesena curava l’importante rivista semestrale “Il lettore di provincia”. Fu Turci a chiedere a Robaey la cortesia di introdurre alcune poesie di un giovane poeta di sua conoscenza sulla rivista. Chi avesse voglia e tempo di cercarlo, il tutto apparve appunto ne “Il lettore di provincia”, XXII, n.80, aprile 1991. Da allora in poi, ogni mia cosa, prima di essere pubblicata, è stata letta, riletta, approvata o meno da Robaey, ai cui pareri e consigli non ho più smesso di affidarmi. Tra l’altro è suo, in larga parte, il merito dell’assemblaggio della mia auto-antologia Riunione di famiglia (1982-2012). 

Per parlare dettagliatamente di Robaey e delle sue opere dovrei ricorrere a un lunghissimo articolo. Qui mi limiterò a ricordare che è nato in Belgio, a Charleroi, nel 1950. Che all’età di diciannove anni decise, grazie ad una borsa di studio, di trasferirsi in Italia, prima a Bologna, dove si laureò in Lettere Classiche con una tesi su Virgilio nel 1977, poi a Modena, dove tuttora risiede. Che è stato Professore di Letteratura francese in diversi Atenei. Che ha tradotto autori dal nederlandese, francese, inglese, sanscrito. Che è un critico, un saggista, un prosatore, e infine, e prima di tutto, che è il poeta degli innumerevoli versi de l’epica (sconosciuti ai più e candidamente ignorati, per lo più, da chi avrebbe il compito di farli conoscere), da cui tomi che probabilmente resteranno negli annali come un’impresa eroica, in ogni senso davvero “epica”. Potrei continuare, come detto poc’anzi, ma insomma, per quanto interessa qui, Robaey è un lettore dallo sguardo di lince e dall’orecchio finissimo, con una idea altissima della letteratura, quasi mistica, intesa come totalmente al di fuori di ogni commercio e dispute da salotti letterari. 

Bene. Sta per uscire a Tenerife, che frequento dal 2019 e in cui risiedo stabilmente dal 2021, Lettere da Tenerife / Cartas de Tenerife, una silloge di poesie e prose in doppia versione italiana / spagnola. Il 9 agosto, insieme al file contenente le ultime osservazioni e segnalazioni riguardanti la silloge, ricevetti da Robaey un secondo file, accompagnato dalla breve missiva che qui riporto: “caro gabriele, ti mando due allegati (il secondo è un testo che la tua raccolta mi ha ispirato: l’ho scritto per te). la raccolta è bella, ho dei dubbi, come leggerai, su due testi. grazie per avermela mandata in anteprima. stammi bene”. Il testo in questione è quello che qui si può leggere, ringraziando Jean per avermi permesso di pubblicarlo. 

Si tratta di una silloge che stamperò a mie spese, fuori commercio, in pochi esemplari destinati ad amici e conoscenti, e il lettore si troverà piuttosto spaesato leggendo il testo squisitamente confidenziale dell’amico, ma tant’è, per adesso gli basti il pensiero.
                                                                                                                                                
                                                                                                                                                  g.z.

sabato 12 luglio 2025

g.z.



Piccolo esame di coscienza


Sono romagnolo, vengo dalla provinciale Cesena che, nel 1884, diede anche i natali al critico letterario Renato Serra, morto sul monte Potgora ad appena trentuno anni, all’inizio della prima guerra mondiale. Nonostante la prematura scomparsa, Serra riuscì a distinguersi nel panorama della letteratura italiana ed europea del suo tempo proprio grazie alla sua voce così particolare, inedita, di decentrato “lettore di provincia”, come egli stesso si autodefinì.

Alcune delle sue migliori pagine Serra le dedicò ad un altro provinciale a denominazione di origine controllata, Giovanni Pascoli, nato nel 1855 a San Mauro di Romagna (dal 1932 San Mauro Pascoli), che dista una ventina di chilometri da Cesena. 

Romagna, una tra le poesie giovanili più riuscite e giustamente celebri del Pascoli, prima di estendersi alla regione intera, al “paese”, si apre con la commossa rievocazione dell’infanzia felice, quando ancora abitava insieme alla famiglia nella villa dei principi Torlonia, di cui il padre Ruggero fu amministratore del latifondo fino al 1867, anno in cui venne inopinatamente ucciso con una fucilata mentre da Cesena rientrava col suo calesse a San Mauro, che il poeta non per nulla chiamò “villaggio”. 
                                     
Sempre un villaggio, sempre una campagna
mi ride al cuore (o piange) Severino:
il paese ove, andando, ci accompagna
l’azzurra vision di San Marino [...]

Bisogna infatti ricordare che la poesia fu composta nel 1880, quando gli abitanti di San Mauro erano poco più di duemila. Non va peraltro dimenticato che Pascoli, parimenti a Serra, ebbe in sorte di appartenere a una famiglia benestante, di poter studiare e laurearsi, quando invece la maggioranza degli italiani e non solo, erano poveri contadini e analfabeti. Il che permise loro di guardare oltre all’amata terra natìa, con occhi lucidi, senza cadere nelle stagnanti abitudini mentali e negli stucchevoli pregiudizi tipici di chi non ha mai messo un piede fuori dal proprio territorio. 

Oggi il mondo è cambiato, viviamo tutti nella cosiddetta globalizzazione, nell’era di Internet che ha annullato ogni tipo di distanza, ma la verità è che non basta connettersi a Internet per sprovincializzarsi. Dico questo perché ho vissuto a Cesena fino a pochi anni fa, e perché ho realmente compreso cosa significhi essere o non essere provinciale quando mi sono trasferito nel sud di Tenerife, nella città di Los Cristianos che, intendiamoci, non è certamente una metropoli.

Però Los Cristianos, nonostante sia assai più piccola di Cesena, ha questo di diverso, che basta aprire la porta di casa per incontrare persone di ogni ceto e provenienza che vanno e vengono da un aeroporto ad un altro, e per scoprire che il mondo è assai meno uniformato e noioso di quanto io ho potuto sperimentare per una sessantina d’anni, come molto prima e molto meglio di me già sapeva bene il mio più illustre concittadino Renato Serra.


martedì 1 luglio 2025

Giampiero Neri


Milano, aprile 2014


Ricordi di un’amicizia

Era il 2001 quando Giampiero Neri, al quale avevo inviato la mia raccolta di poesie I rimanenti, rispose a giro di Poste dicendomi che aprendo il libro a una certa pagina aveva “subito sentito che eravamo amici”. E cosi è stato. 

Un’amicizia sincera, aperta all’ascolto reciproco, vissuta, bontà sua, alla pari, nonostante le differenze d’età e di cultura (nel 2001 Neri aveva 74 anni ed era già un poeta affermato, mentre io solo 42, e dovevo ancora farne di strada). Un’amicizia presto diventata un sodalizio (in seguito abbiamo a più riprese scritto pubblicamente l’uno dell’altro) che continua, come sta a testimoniare questo articolo. 

Ovviamente, lui a Milano e io a Cesena, erano più le telefonate che gli incontri. A Milano erano incontri frettolosi, giusti appena per pranzare insieme in uno dei ristoranti di pesce nei dintorni della sua casa di Piazzale Libia. A Erba, dove trascorreva i mesi estivi nella casa di villeggiatura, avevo invece la possibilità di fermarmi per due tre giorni, pernottavo nella vicina Canzo, e di solito mi portava a mangiare da Negri, all’aperto, in riva al lago di Pusiano. 

Da lì si poteva scorgere l’abitato di Bosisio-Parini e, tra una chiacchierata e l’altra, a Giampiero piaceva rammentarmi qualche verso esemplare del Parini. Usciti dal ristorante, una volta ci spingemmo fino a Longone al Segrino, a vedere ciò che rimaneva della fastosa villa della famiglia Gadda, l’odiata villa de La cognizione del dolore, l’opera che Neri più apprezzava del suo sventurato e inconsolabile conterraneo.

L’ultima volta che ho visto Giampiero è stato proprio a Erba, davanti a casa sua, poco prima di risalire sulla mia auto e far ritorno a Cesena. Ricordo anche il giorno preciso, perché di lì a poco scrissi le due righe promemoria che seguono.

Era il 2 luglio 2019. Ci salutammo commentando le bellezze del luogo e la gente, non proprio ospitale. «Vai adagio», furono le sue ultime parole, come una carezza.

A tutti i consigli che gli chiedevo, soprattutto riguardo alle poesie che andavo scrivendo, egli quasi mai rispondeva fornendomi suggerimenti tecnici, sostituzioni, modifiche, ma piuttosto attraverso inviti a ripensare più attentamente a quanto avevo scritto, una frase, una parola, mirati a farmi riflettere. Inviti a fin di bene, che ho sempre accettato di buon grado, e senza mai pentirmene. L’unico che non ho ascoltato fu proprio in quei giorni d’estate del 2019 quando, lasciandoci, sapevamo entrambi che forse non ci saremmo più rivisti, perché, anche se Giampiero disapprovava, avevo deciso di trasferirmi alle Canarie, dove tuttora vivo. 

Un’altra volta, ricordo, quando gli dissi che grazie a lui stavo imparando a scrivere molto meglio, mi stupì confidandomi che era lui che aveva appreso molte cose da me, più lui da me che io da lui, incredibile ma vero! Ma Giampiero era questo, un maestro atipico, umile, generoso, altruista, con un occhio preferenziale verso i più deboli. 

Tutte cose che mi sono tornate in mente leggendo Utopie, l’ultimo libro, uscito nel marzo del 2023, un mese dopo la morte, ma di cui Neri riuscì a rivedere le bozze, come sappiamo dal suo amico e biografo Alessandro Rivali, direttore delle Edizioni Ares, che lo ha pubblicato. Ci tenevo molto a leggerlo, ma siccome alle Canarie di libri italiani non se ne vedono, me lo sono fatto ordinare e spedire dall’Italia. 

L’ho letto e riletto in poche ore, e si tratta di “un vero testamento spirituale”, come giustamente si dice nel risvolto di copertina. Nel contempo è anche, posso aggiungere, il tentativo di meglio definire, e quindi di inserire in extremis alcuni tasselli ancora ritenuti mancanti a quell’unico libro di cui Neri si considerava autore, come dichiarò in diverse occasioni, e a cui ha lavorato finché ha potuto, appunto.

A “Finestre”, come il lettore potrà notare, Giampiero collaborò più volte, nel 2011 anche con una Piccola intervista, in cui affermava:

Alla verità si arriva cercando in se stessi. Non ci sono maestri. Ognuno di noi è responsabile di quello che pensa e dice. Dobbiamo dunque abituarci a criticare le nostre idee, ossia sottoporle al vaglio di una nostra rielaborazione critica. Come usiamo fare con i nostri “versi”, che possiamo sottoporre anche al giudizio di altri, ma il collaudo definitivo rimane pur sempre il nostro.

Chiudo proponendo il testo che si trova a p. 99 di Utopie. Ed ecco che ritorna la verità, come un mantra induista o, se si preferisce, a riconferma del biblico “niente di nuovo sotto il sole”.

Il manufatto è nudo, privo di qualunque ornamento.
Deve solo rispondere al bisogno di verità.

g.z.

mercoledì 18 giugno 2025

Marco Ferri



Nella scia di Vecchi scemi che presentava tredici “racconti”, è appena uscito, ancora per le edizioni peQuod, Le cose non sono più come prima, che stavolta ne propone ventuno. Benché tra l’una e l’altra opera siano trascorsi otto anni, sembra un giorno, i due libri si somigliano come fratelli siamesi. Il fatto è che Ferri, che ha pubblicato il suo primo vero libro, di poesie, Prove e variazioni, a trentacinque anni, ha una bibliografia che si legge in un minuto tanto è scarna e cadenzata, e che insomma, d’abitudine pubblica poco, e/ma sempre a colpo sicuro, come sanno i suoi affezionati lettori. 

Perciò francamente non si può dire quale dei due libri sia riuscito meglio, nel senso che c’è una continuità profonda tra i due, ossia non di mera superficie, dunque non tanto perché a p. 29 del secondo ricompaiono, per esempio, gli altri vecchi scemi del primo, e neppure in ragione della scrittura fresca, senza orpelli, quasi parlata che contraddistingue Ferri e che quindi, ormai, non è più una novità. Una fedeltà profonda, ripeto, interna ai testi, di gusti, idee, sentimenti, nel solco scavato da una resilienza (resistenza, si sarebbe detto anni fa) ai tempi che mutano, in bene o in peggio, che ci piaccia o meno, come dichiara senza alcuna enfasi il didascalico titolo, Le cose non sono più come prima.

E se insisto a mettere tra virgolette il termine “racconti” (così vengono chiamati, ma appunto senza virgolette, nei risvolti anonimi di copertina di entrambi i libri) è perché, come già notai a suo tempo per Vecchi scemi, il termine “racconti” mi pare una definizione di comodo, utile certo a catalogare i testi, a etichettarli in qualche modo, ma a me non sembrano racconti in senso stretto, come se ne scrivevano e leggevano fino ai primi del Novecento, sicché preferisco definirli scritti, opere, testi, termini certo generici ma anche, ritengo, meno fuorvianti.

C’è tutto Marco Ferri in questi testi, il poeta, l’intellettuale, l’ex bibliotecario, l’uomo con le sue sofferte verità. Nonostante l’autore si guardi bene dal riferirsi direttamente a sé stesso, sono i suoi personaggi che qua e là ce lo ricordano, di volta in volta trasognati o meditabondi, monologanti o svagati, o intenti a barcamenarsi in autoanalisi.  Tuttavia l’immedesimazione di Ferri nei suoi personaggi è tale che anche i lettori vi si potranno riconoscere, perché comunque hanno in dono una vita propria e si rivolgono ad ognuno di noi, alla coscienza di ognuno di noi. Non a caso uno dei testi, richiamando ironicamente Pirandello, si intitola L’autore in cerca del personaggio.

Sono personaggi per lo più simpatici o, forse meglio, “persone” simpatiche, quelle tirate in ballo da Ferri, spesso soggetti perduti e perdenti, sconfitti dal passato come dal presente, e per giunta senza un futuro in cui credere. Talvolta fanno sorridere, non proprio ridere a pensarci un po’, come i Bouvard e Pecuchet di Flaubert, citati da Marco a p. 157. Qui di seguito, in chiusura, un paio di excerpta.


Quanto tempo perso.
Però, credetemi, sono stato onesto. Questo mio pensare senza pensare è tutto quello che ho e soprattutto è quello che sono. Non c’è altro. Le risposte non vengono con il ragionamento, il più delle volte. Ed è strana questa cosa. Ci vuole una specie di calore interiore, una affermazione non verbale, uno stato di grazia. Questo fa capire di solito che il primo tassello è quello giusto: questo ineffabile sorriso interiore, e poi via, si parte. Il fatto è che ognuno vive solo.

Prendilo come un dono. Un dono per un amico da un amico che non ha mai saputo vivere nel presente. Un dono che ti lascio come un oggetto caro dentro una tomba etrusca.

 

                                                                                                                                               g.z.

martedì 17 giugno 2025

Nino Iacovella


Ruth
L’esecuzione di Ruth Snyder nel carcere di Sing Sing, 1928, fu ritratta per sempre in una foto in bianco e nero. L’orrore della pena di morte accentuato dall’effetto mosso. La morte ritratta e sbattuta in prima pagina sui giornali il giorno successivo all’esecuzione. Per Robert Green Elliot, boia della sedia elettrica, fu la prima esecuzione di una donna attraverso il congegno che aveva inventato.

Ruth Snyder insieme al suo amante uccise il marito con il quale condivideva un matrimonio infelice. Ruth ebbe un’infanzia difficile, dove la difficoltà di essere figli di una coppia di recente immigrazione negli Usa si incrocia con una salute tormentata dalle malattie e dai ricoveri ospedalieri. Ma è la sua bellezza a fare da contraltare alle sue difficoltà. Così come l’attrazione fatale verso la mondanità degli anni ruggenti, irresistibile ai più affamati di vita e di riscatto sociale.

 




Robert
Vivo i giorni nella pace del mio giardino,
lo sguardo a ritroso,
le stimmate nei palmi della mia storia
Godo di buona salute, non prendo peso
malgrado il carico che mi porto alle spalle
Mi si rinfaccia di essere stato un boia,
un’accusa infame per un elettricista
che ha avuto un compito ingrato:
inventare un modo nuovo
per far morire
Sono sempre stato un uomo mite,
rispettoso della vita, ho ossequiato
le esecuzioni con l’umiltà dell’argine
che opera solo quando il fiume straripa
Tutti sappiamo che dal giardino di Dio
nessuno può cogliere la mela
senza cambiarne il nesso,
il sapore della parola, e nessuno
si sorprenda se dentro le viscere
il frutto poi diventi il male


Ruth
Sono nata a New York il 27 marzo del 1895
e morta sulla sedia elettrica il 12 gennaio del 1928,
a 33 anni come ogni cristo sulla croce
È vero che ho ucciso, ma la vita chiamava
la bellezza sacrificata sull’altare
di una unione fallita,
e io amavo quegli anni di possibilità
e spensieratezza, carezze lenitive
sul mio corpo pieno di ferite,
le notti curate a jazz, a charleston
e amore carnale, ultimo baluardo
di un mondo proibito
Ho cercato di sfuggire alla stretta di un destino,
ma non ho saputo assaporarne la colpa,
la misura di un gusto che ubriaca e uccide
Ho dato al mondo una figlia,
trascinato un altro uomo nel delitto,
non ho saputo tenere il tempo
di un ballo che accelerava
in frenesia i passi


Robert Green Elliott ha eseguito 387 condanne a morte tra le quali quella di Sacco e Vanzetti, quest’ultimo un pescivendolo analfabeta che nei sette anni di carcere aveva letto e studiato. Prima dell’esecuzione aveva lasciato detto al cappellano del carcere che no, non era giusto mettere allo stesso piano Cristo e due poveri immigrati anarchici italiani.
“La vita di un buon calzolaio e di un povero pescivendolo sono poca cosa, togliercela è tutto ciò che questa società ingiusta può fare. Quest’ultimo momento appartiene a noi, padre, soltanto a noi due. Quest’agonia è il nostro trionfo”.


Robert
2000 volt per 3 secondi
500 per il resto del primo minuto
ripetere l’operazione per tre volte
e poi più niente
Alto voltaggio e basso voltaggio
una sequenza necessaria per rendere
la vittima incosciente
e poi bruciarla dentro, senza ustioni,
un lavoro pulito
Porto sempre con me gli elettrodi
e il casco da football
da far indossare al condannato
L’estetica della morte
è un dettaglio che poco importa
per un semplice artigiano
La sera tornavo a casa,
nell’altrove del giardino


Robert
Mentre due guardie si occupavano di legarla e un’altra le collocava l’elettrodo sulla caviglia destra, io stesso, dopo averle sistemato delicatamente i capelli dietro al collo, le applicai in modo corretto spugna e calotta metallica sulla fronte. Impegnato in quell’operazione, la sentii sussurrare: 
– Sono innocente – poi, con voce più chiara e distinta: 
– Padre, perdona loro, perché non sanno cosa fanno.
Collocandole per ultimo la maschera sul viso, udii un’ultima, toccante supplica: 
– Gesù, abbi pietà – continuando a singhiozzare.
Forse senza rendermene conto, le bisbigliai qualcosa:
– Tranquilla Ruth, ci vorrà un attimo. Perdonami anche tu. Addio. 
(Da Agent of Death New York – E. P. Dutton & Co. Inc. 1940)


Ruth
Adesso toccami Dio, nel perdono
con l’energia della luce
che attraversi il mio corpo,
schiantando le vene
Guardami Gesù sulla tua croce,
mentre tremo prima che la tensione
elettrica fluisca nel sangue
Guarda la mia schiena, un sussulto
m’inarca sulla sedia nel distacco
atroce tra corpo e anima
Torno a voi, bambina indocile
che a piedi nudi ha lasciato
impronte lievi
sulla neve del tempo
C’è questo calore da restituirvi,
la materia morta, questo sole interno
che ora non pulsa, destino di una stella
che tutto illumina e brucia


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Da “Madre della violenza”, La parte arida della pianura, inedito.

sabato 7 giugno 2025

Amedeo Anelli





Tactus I /Iconografie
                                                                           

«L'unità non è l'unità di un principio e neppure quella di un centro, ma l'unità di un ordine e di un insieme. La forma del suo ordine è la stratificazione, quella del suo insieme il ritorno categoriale»
                                                                 Nicolai Hartmann


porto con me una lanterna rossa
in questo viaggio oscillante come a notte
la luce dell'ultimo vagone
come antico viandante la bisaccia
il bastone e il gatto che imperturbato
mi segue ovunque vada
a parità di vite è più vecchio di me
in una fraternità dei corpi mi segue
dal noto verso il non conosciuto

ci accompagna una pioggia sottile
e l'odore di erba fresca appena tagliata
nel lento sparire delle cose
nel tempo flessuoso e stratificato
degli eventi delle immagini.

(Codogno 31 marzo 2025)


Tactus II/Iconografie
                                                                         
                                                             A Serena Rossi

«L’indifferenziato è lo stadio precritico in cui tutti i problemi si confondono ma anche la matrice di ogni futura differenziazione»
                                                                                                Remo Cantoni


Come un gufo o una civetta
sta sulla mia spalla il gatto rosso
compagno di un viaggio nella notte dell’anima
nelle visioni del corpo e della stanza
in cui riverbera poca luce

il grande buio totale è un sogno impossibile
così come i prodigi dell’udito sulla soglia dell’udibile

l’animale è tutto peso e una bolla di caldo
si distende placido nel transito del cielo
che non vedo 
nel viaggio di nubi non scrutabili.

(Codogno 4 aprile 2025)


Tactus IV/Tractus

                                                        In memoria di Daniele Beghè               
                                                                                   
«Guarda come simile a una nuvola viva / zampilla la fontana risplendente; /come fiammeggia, come si rifrange / il suo umido fumo nel sole»
                                                                                                                      F.I Tjutčev


Il ritmo delle rotaie e il fumo del camino
la memoria del viaggio nella tradotta del tempo
l'existere delle cose e la loro scomparsa
volti nel tempo volti del tempo
nel risvolto della pagina
il foglio si stende oscilla
vola nell'aria
atterra e s'accartoccia
per i viottoli dell'orizzonte
nell'aria indelebile della memoria
un po' più in qua un po' più in là
di noi stessi.

(Codogno 8 aprile 2025)

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Tre poesie da Tactus

martedì 3 giugno 2025

Marco Ferri




Dentro e fuori

Nell'anno incosciente
incerto tra un inizio
e una fine, nello sconcerto
di metà giugno, guardando
da assente o novizio,
non c'era qualcuno
per parlare del futuro,
e c'era molto vento
in riva, il fango proveniva
dal torrente e il mare
ingialliva di terra
sospesa, che marciva.

Potevo andarmene,
nessuno si sarebbe accorto.
I tempi erano quelli,
di conformismo ipnotico.
Era il tempo delle repliche
e delle prediche, un presente
participio passato. E l'odore
di qualcosa che moriva
non aveva alcun odore.
Uno diventava trasparente
se non riusciva a parlare
o farsi annusare.

Comunque l'attraversamento
mi ha portato molto lontano
dal centro dell'uragano.
Bandiere tra le macerie,
sangue e cenere. Corpi
di carne, lacerati e profanati,
l'odore di aglio bruciato,
merda zolfo e carbone.
Crollare, esplodere...
Volti di polvere e lacrime.
Qui niente. E sopra l'orizzonte
le stesse costellazioni.


Tennis

Questo fiato corto e rime
palesi e nascoste è un gioco
per due, come gli scacchi
o il tennis. Cambio campo
e palle nuove, giallo canarino,
sono ferme sotto il sole,
sparse sul rosso del terreno.
Seduti all'ombra i giocatori.
Gocce di sudore bruciano
gli occhi. Poi scendono
alle docce, nella custodia
mettono l'io bambino.

Il rammarico, l'abbagliante
sole dei vasti pomeriggi
d'estate. Cercavo oggetti
smarriti. Allucinazioni perdute.
Cosa è stato? Il palinsesto
raschiato e lavato, quelle
erano grida, emozioni,
adesso un parcheggio vuoto.
Rovisto rovescio lo zaino.
Le scarpe consumate, calzini
puzzolenti, le magliette
lievi come il vento.

Nient'altro. Soltanto
il dopo partita, l'aria
cruda della sera all'uscita
del circolo tennis. Provo
a restare, ancora un poco,
prima di invecchiare.
Il vento sfoglia un giornale.
Elon Musk in visita come Hitler
a Firenze. Dalle svastiche
alle X le ossa contano gli anni.
La rete a strascico è sparita
che puliva la terra rossa. 

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Dall'opera inedita La tenerezza del disordine.