venerdì 1 gennaio 2016

Francesco Zani


Sono contento di aprire il 2016 con un giovane, Francesco Zani, per il quale ho creduto opportuno stendere una sia pur sintetica notizia, trattandosi del primo poeta esordiente che ospito. Francesco è nato nel 1991 e già da diversi anni si occupa di giornalismo; laureatosi in Filosofia a Bologna nel 2013 si sta ora specializzando in Editoria e Scrittura a Roma, presso La Sapienza. È di Cesena come me e si chiama Zani come me, ma non siamo parenti, e magari di tali coincidenze avremo modo di parlare face to face quando capiterà il giorno che ci conosceremo: lo dico perché detesto i favoritismi a buon mercato, e così come preferisco non riceverne, neppure sono solito farne. Più semplicemente, forse per via di amici e fautori della poesia che abbiamo in comune, penso a Roberto Mercadini e Lorenzo Bartolini in primis, Francesco ha pensato di mandarmi in lettura un mannello di suoi testi che mi sembrano meritevoli di attenzione e qui, con molti auguri per la sua vita, ne propongo un paio.
g. z.






Roma, marzo 2015

A Roma si possono incontrare un numero incredibile di persone
che non sono te

Lo annoto su una pagina di Petrolio
la 493 dell’edizione Mondadori
tutta nera e un po’ bianca

Spero che Pasolini non si offenda
ho scritto a matita leggera leggera
così se ci ripenso
posso cancellare

È marzo
tutto sta fiorendo all’improvviso
ma piove a dirotto
che non si vede il cielo

I fiori rosa e gialli annegano
in fondo all’acqua grigia
ed è strana primavera
che si prende le sue pause

Quasi quanto incontrare un numero incredibile di persone
che non sono te





Roma, maggio 2015

Ma tu come ti difendi?

Tengo due sigarette e una moneta
nella tasca interna del giubbotto invernale
non si sa mai

Mangio in riva al mare
sembra azzurro da qui
alla giusta distanza la vista migliora

Guardo i miei genitori
indovino quali rughe saranno le mie
vorrei sotto l’occhio sinistro la piega che ha mia madre
e che le mie mani invecchiassero
come quelle di mio padre
sorrido spesso
rispondo distratto
salutarli è ogni volta accorciare il nostro tempo insieme

Mi abituo ai rumori
anche quelli più fastidiosi
se piove tre giorni di fila
e poi arriva il sole
in testa mi tengo il picchiettare delle gocce
come gli amori che ti riempiono le giornate
e quando non ci sono più
ti ritrovi in quei silenzi
da sigarette sui gradini di casa
e camminate
sperando che lei si giri

Vivo sei giorni a settimana
uno lo tengo da parte
così quando saremo troppo vecchi
potrò regalarti i miei momenti migliori


martedì 1 dicembre 2015

g. z.








Quel bambino con la gamba ingessata
che guardava da una finestra
il viavai della gente
fuori dall’ospedale, beata!

Quel bambino tanto paziente
dicevano le infermiere
- come se un’altra estate
non fosse già passata!

Vaglielo tu a spiegare
che tutto alla fine torna
che ognuno ha il suo destino

che non c’era niente di strano
se lui era lui                                    
e gli altri erano gli altri.


 Di Cesare

Può sembrare strano che Cesare, nel Bellum civile, riferisca di avere atteso a Ravenna i tribuni della plebe fuggiaschi da Roma, quindi della sua prima sosta oltre il confine della Gallia cisalpina, nella conquistata Rimini, senza spendere una parola sul passaggio del Rubicone, per noi posteri tanto più memorabile.
Eppure grazie a questa dimenticanza lo scrittore ottiene di farci conoscere il grande condottiero meglio, a mio parere, dei biografi che invece non hanno resistito alla tentazione di rievocare l’episodio, tra l’altro citando frasi che egli avrebbe pronunciato per l’occasione, «Iacta alea est» su tutte.
Ho preferito chiamarla dimenticanza, non sapendo decidermi tra due termini senza dubbio più calzanti, omissione o omertà, perché comunque non si può certo intenderla come una sbadataggine. 
Vuoi che il confine del Rubicone fosse talmente noto ai suoi tempi, cosicché Cesare ritenne superfluo ricordarlo ai lettori, vuoi che l’attraversamento di un torrente, e questo si può darlo davvero per scontato, ben poco avesse a che spartire con le gestae da tramandare.
Che poi si tratti del Fiumicino di Savignano di Romagna, ora Savignano sul Rubicone, come decise Mussolini nel 1933, oppure del Pisciatello che scorre nei pressi di Cesena, come diversi studiosi sostengono, questa dei campanili è già un’altra storia, di noi comuni cittadini.



domenica 1 novembre 2015

Fabio Pusterla







VIA TRINCHESE


Mite città del sud corsa dallo scirocco
luce quasi orientale strade bianche;
ma lungo via Trinchese il segno nero
orrido sopra il muro: «Pasolini
appeso». Pasolini chi, ci chiediamo,
Pierpaolo? Ma è già stato massacrato
in vita e in morte: adesso ancora
appeso? Vilipeso
quarant’anni più tardi?  E da chi?

O forse è un altro
Pasolini: il compagno più inviso,
un insegnante odiato o odioso,
un qualsiasi presunto nemico, un tifoso
da massacrare in sogno, da squartare
per sfogare una rabbia che cova?
(Quanti Pasolini massacrabili quanti
massacratori smaniosi… ) E poi:
appeso come, appeso dove?

Appeso come un gerarca
sconciato, sottratto alla parola e all’accusa,
ridotto al silenzio? O appeso ad un fanale,
in una notte bianca e nera di Parigi,
a comporre l’arcana
figura dei tarocchi
da poeta nervoso?  O sotto un ponte
di Londra, sul Tamigi affumicato,
come un banchiere troppo esoso,
troppo pericoloso o troppo inutile
rotella dell’ennesimo mistero
gaudioso d’Italia? Appeso a un gancio
come una bestia sgozzata,
a una putrella a una trave portante,
a un arco di rovina?

O appeso al nulla,
come un bimbo innocente
gettato a riva dal mare
e subito rappreso
in icona del rimorso collettivo
di un’Europa rancorosa
timorosa e divisa
Europa sussiegosa che è caduta
dalla groppa del toro nella polvere sulfurea,

o appeso come noi
oggi qui appesi all’assenza
di un senso di un progetto dignitoso,
con gli occhi persi di fronte
a questa scritta ignobile che parla
per tutti, che dice
il punto dell’orrore forse il punto
di non ritorno, la tempura
in cui friggiamo e geliamo
malmostosi e ancora increduli
che per certo lì vi sia quel che c’è scritto,
che possa quella cosa essere vera? (E lo è.)




FRAMMENTI METROPOLITANI


Da che luce d’altopiano da che crollo
memoria di boato o di schianto
viene l’uomo che adesso si appoggia al muro di un sottopassaggio
e piange e sembra grugnire scuote un ringhiera
dicendo tra le lacrime non so,
io davvero non so che cosa mi stia succedendo, ma è terribile
e bellissimo e ingiusto, e intanto gli passano accanto
donne su biciclette, bambini vestiti di giallo,
e sopra la sua testa i suoi sogni o fantasmi lentissime piovre,
corrono vagoni ripieni di merci, automobili,
piccoli e grandi vortici,

se ora ripensa forse a una strada brulicante di Ginevra
dove l’ignoto italiano diceva all’amico, con tono
grave, perché poi il sangue piccolo
si mescola col sangue grande, e questo non deve
capitare mai, tu m’intendi, mai,
e nessuno poteva capire davvero
a quale oscura catastrofe si riferisse,
guardando senza vedere vetrine addobbate
di scarpe alla moda, computer, ma certo
catastrofe era, spavento,

e poi in corso Manzoni, diciamo, ricorda una donna
che grida e singhiozza perché
tu non vuoi stare con me? perché, perché? non ti sento                                              
già più e si accascia, il telefono cade, si spegne
e una folla la inghiotte
Milano la strozza Milano la prende
e intanto una mano dipinge sul muro una scritta: che cosa
amici ci sta capitando, a noi tutti? Che cosa?
E la gioia: chi ha rubato la gioia?,

se adesso non rende
memoria o speranza alcun mare,
se ciò che rintocca è il martello
pneumatico sordo dei giorni
e lui tutto questo si dice e ripete. Poi torna
nel traffico, mangia un’albicocca, aspetta il tram.


giovedì 1 ottobre 2015

Elio Tavilla








certo, alla fine i fiori esistono, ma non è per questo che i maiali
ci angustiano con quel dolore da predestinati, lo avranno visto anche loro
il mortale distendersi delle petunie o delle ortensie o ancora i girasoli
con la vaga dissolvenza dilatata all’infinito... Vira al temporale il nostro pomeriggio.
Avevi con te la borsa e la coperta, niente cuoricini infranti sopra i legni scheggiati
dei lecci, e quindi: perché quel palpitare inutile di carni commestibili, lo sai
ti mangerei da viva se proprio lo vuoi detto. Non approvi, continui a camminare
nel breve ti avrei detto qualcosa di trascorso e invece la sirena interrompe
ogni scampo, una cosa per volta – mirare, fingere, sparare


*


sette  di sera, non ho mangiato nulla da due giorni, qualcosa
fuoriesce dallo spazio interstellare, un’ernia indivisibile che le truppe
francesi avrebbero sconfitto come ad Austerlitz o ad Alessandria, le bestie
assiepate sugli spalti come ultima cosa viva da toccare. Però me lo dicevi
che a due giorni da qui c’erano i dolori, ridacchiavi al lugubre messaggio
dei morti: «Butta via la foia che hai in corpo, assièpati come le bestie sugli spalti
sei la carne da cannone del secolo ventuno, uno come tanti». A braccetto
espiavamo le colpe, davanti a un cumulo di ossa consumavamo
il pasto delle fiere


luglio-agosto 2015

martedì 1 settembre 2015

Herman Melville







97. La lampada

   Se foste scesi dalla raffineria del Pequod al castello di prua dove dormivano gli uomini smontati dalla guardia, per un singolo momento avreste quasi creduto di trovarvi in qualche rilucente sacrario di re e di consiglieri canonizzati. Là i marinai giacevano nelle loro triangolari cripte di quercia, ognuno immerso in un silenzio di pietra, mentre la luce di una ventina di lampade colpiva i suoi occhi chiusi.
   Sui mercantili, l’olio per i marinai è più scarso del latte di regina. Vestirsi al buio, mangiare al buio e raggiungere, inciampando nell’oscurità, il proprio giaciglio: questa è l’abitudine. Ma il baleniere, che va alla ricerca dell’alimento della luce, vive perciò nella luce. Fa della sua cuccetta una lampada d’Aladino e ci si corica, così che anche nella notte più scura il nero scafo della nave ospita sempre una luminaria.
   Guardate con che libertà assoluta il baleniere porta il suo mucchio di lampade – benché spesso non siano che vecchie bottiglie e fiale – al refrigeratore di rame della raffineria, per riempirle come boccali di birra a un barile. Brucia anche il più puro degli olii, al suo stato grezzo, e perciò incorrotto; un fluido sconosciuto ai congegni solari, lunari o astrali della terraferma. È un olio dolce come il burro della prima erba d’aprile. Lui ne va a caccia, così da poter essere certo della sua freschezza e della sua genuinità, proprio come il viaggiatore delle praterie va per suo conto a caccia della selvaggina di cui si ciba.



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Da Moby Dick, cura e traduzione di Pietro Meneghelli, Newton Compton, Roma 2004, p. 337.