IV. Possiamo accusare
a lungo il destino, ma non possiamo mutarlo: rimane fisso e inesorabile. Non lo
muove nessuna invettiva, nessun pianto, nessun motivo: non risparmia nessuno,
non perdona. Risparmiamo quindi le lacrime che non giovano a nulla: è più facile
che un tale dolore ci accosti a loro che li riporti a noi. E se ci tormenta
senza giovarci, bisogna rifiutarlo dal primo istante e tenere l’animo lontano
dalle consolazioni illusorie e dalla malsana brama di soffrire. [2] Perché, se
la ragione non metterà fine alle nostre lacrime, non la metterà certo la
fortuna. Orsù, guarda tutti i mortali che ti stanno attorno: dovunque c’è
abbondante e continua messe di afflizione. Uno è spinto al quotidiano lavoro
dalla povertà faticosa, un altro è agitato dall’ambizione mai soddisfatta: uno
teme la ricchezza che aveva desiderato ed è vittima dei suoi voti: uno è
tormentato dalla solitudine, uno dal favore che gode, un altro dalla folla che
gli assedia il vestibolo: costui si duole d’avere figli, quello d’averli perduti.
Ci mancheranno le lacrime prima che le occasioni di versarle. [3] Non vedi che
genere di vita ci ha riservato la natura, quando ha stabilito che entrassimo
nell’esistenza piangendo? È questo il primo atto con cui veniamo al mondo: ad
esso risponde concorde la serie degli anni successivi. Così passiamo la vita e
perciò dobbiamo compiere con misura un atto che ci si impone di frequente e,
considerando le tante cose dolorose che di dietro ci incalzano, dobbiamo, se
non proprio porre un termine alle lacrime, per lo meno, tenerle in riserva. Di
niente s’ha da essere avari più che di queste, il cui uso è tanto comune.
Dalla Consolatoria a
Polibio, traduzione di Pino Zanni Ulisse, in I dialoghi a cura di Renato
Laurenti, Edizione CDE, Milano 1978.