mercoledì 1 aprile 2015

Pier Paolo Pasolini







POESIA NELLA SCUOLA


La poesia nella scuola ha una funzione ben chiara e precisa, anche se generalmente la si giudica con molta approssimazione attribuendole dati meramente culturali o sentimentali. A noi sembra che almeno nelle medie inferiori (ma anche, così come stanno le cose, nei Licei) lo studio della poesia non viva che ai margini della cultura, documento ante litteram, strumento senza applicazione, testimonianza che non trova riscontro nei fatti, se fornito senza i suoi presupposti estetici, senza le sue impostazioni filologiche e prospettato molto vagamente nello spazio storico e ambientale. Una poesia letta di per sé (come nelle medie inferiori) o approssimativamente ambientata (come nelle superiori), acquista valori diversi, si isola in un tempo non oggettivamente suo, sì che, pur arricchendosi di inaspettate suggestioni e di suggerimenti spesso perentorii, non rientra in una forma di cultura, nemmeno schematica, anzi è nella maggior parte dei casi la cultura falsa con cui si esce dai Licei e di cui vive il borghese. Ugualmente inattendibile è l’opinione di chi dà allo studio della poesia una qualificazione meramente pedagogica, quasicché la lettura di un testo poetico avesse un valore di esempio, proprio nel senso plutarchiano della parola; la gravità di questo equivoco è documentata dalla scelta dei testi «edificanti», da L’Aquilone del Pascoli, giù fino alle latebre del più basso romanticismo. Certo, per l’imparzialità, non potremmo escludere del tutto dalla lettura della poesia, come funzione educatrice, anche un aspetto culturale (ma in tal caso sono da sfruttarsi e da chiarire quegli elementi culturali, in specie linguistici, che lievitano allo stato di pura suggestione da una lettura isolata) e un aspetto sentimentale, se all’attributo si dà un significato rigido di «educazione sentimentale», in modo che la purezza o la generosità ecc. non risultino dal contenuto di una poesia letta illecitamente a un suo stadio narrativo, aneddotico (a proposito, quando il crocianesimo entrerà nelle scuole? Tutti i giovani insegnanti, costituzionalmente e inconsciamente crociani, anche se male preparati, davanti a una scolaresca, ridivengono scolari riprendendo la tradizione dei loro vecchi professori degni del Cuore); al contrario la purezza, la generosità ecc., ossia l’eco di un’umanità volta a interessi non pratici, deve essere suggerita agli scolari proprio attraverso una interpretazione formale, cioè girando davanti ai loro occhi, quasi con un rudimentale rallentatore, l’operazione poetica, che è sempre una metafora, un passaggio da un ordine sentimentale a un ordine verbale. È chiaro comunque che se l’insegnante non sa quale sia la funzione della poesia nella scuola, accettandone un’interpretazione abitudinaria, farà, leggendola e spiegandola alla lettera, non solo una fatica inutile ma dannosa, rendendo ingiustificata agli occhi dei suoi «barbari» (proprio nel senso greco di alloglotti) scolari l’operazione poetica, questo sommo prodotto della civiltà. Se dunque da questo esame negativo risultano già almeno in parte i valori da scoprire nella lettura di un testo di poesia nella scuola, che sono valori soprattutto esemplativi (un testo diviene una monade in cui si concretano e trovano una forte vita fantastica vasti e originari motivi culturali e psicologici), è chiaro che si vuol dare intanto allo studio della poesia un carattere critico, almeno in nuce. In termini pedagogici, questo studio è strettamente complementare a quello della grammatica e della sintassi, a parte la maggiore altezza dell’esercizio. Ecco allora chiarirsi la funzione della poesia nella scuola come coscienza linguistica, come iniziazione all’inventio, dopo il chiarimento grammaticale, sintattico e fraseologico dell’istituzione linguistica, dell’inventum. Ma se si tien conto che a ogni approfondimento sentimentale, a ogni scoperta interiore corrisponde un approfondimento e una scoperta linguistica, e viceversa, si vedrà quale ulteriore importanza può avere una poesia il cui funzionamento sia così inteso, quando giunga a mettere in movimento il meccanismo mentale che conduce dalla introspezione alla espressione e viceversa. Ecco un preciso compito pedagogico, addirittura profilattico, quando il risultato sia una presa di coscienza e un superamento dell’istinto e dell’abitudine, che conducono il ragazzo ad accorgersi di sé e del suo ambiente.
   Ma quali saranno i testi poetici da leggersi in una scuola media? La risposta è semplice se si pensa che devono essere soprattutto insegnamento di lingua, esempi di metafora, di trascrizione e di invenzione; ecco dunque che quei testi saranno da scegliersi tra quelli dei poeti viventi, che usano una lingua viva non solo come lessico ma proprio come concezione dell’uso espressivo e come scelta dei sentimenti da esprimersi.


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Da Poesia nella scuola, in «Il Mattino del Popolo», 4 luglio 1948. Poi in Pier Paolo Pasolini, Un paese di temporali e di primule, a cura di Nico Naldini, Guanda, Parma 1993, pp. 280-282; ristampato nel 2001.

domenica 1 marzo 2015

Ai lettori







Ultimamente ho avuto poco tempo da dedicare alla lettura, e quel poco che comunque sono riuscito a leggere non mi è sembrato particolarmente significativo.
Perciò ho deciso di utilizzare la “finestra” di questo mese (ossia la numero 236, mentre la prima, introduttiva, era datata 17 agosto 2011) non come al solito per proporre autori e opere ma per segnalare che “Finestre” ha superato le ventimila visite.
Un risultato che trovo davvero gratificante, anche considerando che diversamente da molti altri blog e riviste similari qui non si dà spazio né a commenti né a pubblicità.
Dunque i ringraziamenti più sentiti a tutti i lettori per l’attenzione sinora accordata a “Finestre”.


g. z.

domenica 1 febbraio 2015

Francesco Bonami





Robert Ryman, Untitled, 1961 (Peter Blum Gallery, New York)


  Il pittore americano Robert Ryman ha trovato un metodo per usare proprio il niente nelle sue opere. Dipinge le sue tele interamente di bianco, ripetendo continuamente questo rito dell’artista desolato davanti al nulla che precede ogni creazione. A voi sarebbe mai venuto in mente?
   Il problema di questa arte è che si basa sull’idea, non sulla tecnica.
   Se nell’antichità la tecnica era fondamentale per sviluppare un’idea, oggi non lo è più. Se nelle botteghe dei grandi pittori gli allievi potevano seguire o ispirarsi allo stile del maestro, nell’arte contemporanea questo non è più possibile.
   Non possono esistere artisti che lavorano nello stile di Robert Ryman perché se ci fossero non farebbero altro che copie di Ryman. Cosa imparano da lui allora e cosa possono fare i suoi assistenti e allievi? L’insegnamento di Ryman è più profondo. L’artista in questo caso dice all’allievo: «Io non ho idee oltre la tela bianca e tu?». L’allievo deve quindi affrontare un problema che non riguarda solo Ryman ma tutti noi, vale a dire il dramma del vuoto e del modo in cui può essere colmato, nell’arte ma anche nella nostra vita quotidiana.
   Se la noia non era mai stata un soggetto dell’arte visiva ora lo può essere. Possiamo dipingere la noia, possiamo raccontarla attraverso immagini o con l’assenza d’immagini? Forse.
   Ma perché Ryman è un bravo e importante artista? Forse perché nello spazio convenzionale della tela, e non con un libro, riesce a trasmetterci qualcosa di profondamente vero?
   Il vuoto e la noia sono parte della nostra vita e forse è meglio degnarli di attenzione piuttosto che far finta che non esistano.
   Un quadro tutto bianco, che sciocchezza! Certo, apparentemente è una sciocchezza, nessuno può negare che tutti sono capaci di realizzare un quadro bianco, ma il punto è che a nessuno sarebbe mai venuto in mente di farlo. Perché? Perché la maggior parte di noi tende a rimuovere dalla propria vita l’idea che il vuoto esista, che spesso quando siamo seduti in poltrona nella nostra testa non c’è nulla, solo uno spazio bianco.
   Noi occidentali siamo spaventati dal nulla, ma in altre culture esso attiene a una dimensione importantissima.
   Le nostre case sono piene di cose, e quando sono vuote ci sembrano squallide.
   Per un gran numero di persone un quadro di Ryman, rispetto a un’opera di Renato Guttuso, sembra del tutto insignificante, come il riso in bianco a confronto di una pasta all’amatriciana. Ma come milioni di persone nel mondo fanno del riso in bianco la base di tutta la loro cucina, allo stesso modo il bianco della tela di Ryman può essere considerato una base, sulla quale è consentito immaginare qualsiasi cosa.
   In un quadro di Guttuso non si può aggiungere o modificare nulla, e ciò non toglie che a volte saremmo tentati di buttarlo direttamente nella spazzatura.
   Su un quadro di Ryman la nostra fantasia può proiettare tutto, e per questo la sua opera è importante, perché consente allo spettatore di sentirsi di colpo libero di immaginare ciò che vuole. E compito dell’arte è proprio quello di farci sentire liberi.



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Da Lo potevo fare anch’io, Mondadori, Milano 2014, pp. 16-17. 

giovedì 1 gennaio 2015

Marco Ferri




*


Oggi piove. Il profumo
di terra bagnata risveglia
una felicità lontana,
cavernosa e umida.

Anche il silenzio ha una lunga
lunghissima familiarità
ma non è una compagnia piacevole.

C’è un rumore di pioggia
sui muri e sulle soglie,
e un silenzio che inquieta
dall’età della pietra.




Continua l’insonnia


Dove il rosso e il violetto
scompaiono, quelle non sono zone
che fanno per noi. La misura
di tutte le cose non è la specie
che ha imparato a conoscerle e raccontarle.
Dalle finestre guardo la pioggia,
quel verde acido e notturno crivellato
di gocce nelle pozzanghere e penso che sarà così
quando io non ci sarò più e quando non ci sarà
più nessuno. Forse ci sguazzerà
qualche mollusco o qualche invertebrato
ancora incerto nella forma, ma dovrà fare in fretta,
non avrà il tempo che abbiamo avuto noi.



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 Da Inverno nell’Antropocene.

lunedì 1 dicembre 2014

Albert Camus







   Se si vuol credere a un mio amico, un uomo ha sempre due caratteri, il suo e quello che gli attribuisce la moglie. Sostituiamo moglie con società e capiremo come una formula che uno scrittore collega a tutto il contesto di sensibilità possa essere isolata mediante il commento che se ne dà e presentata al suo autore ogni volta che egli desidera parlare d’altro. La parola è come l’atto: «Avete dato alla luce questo bambino?» «Sì.» «Quindi è vostro figlio.» «Non è così semplice, non è così semplice!» Così, una brutta notte, Nerval si è impiccato due volte, prima per sé, perché era infelice, e poi per la sua leggenda, che aiuta qualcuno a vivere. Nessuno può parlare della vera infelicità, né di certe felicità, e non mi ci proverò io qui. Ma la leggenda si può descrivere e si può immaginare, almeno per un momento, di averla dissipata.
   Uno scrittore scrive in gran parte per esser letto (ammiriamo chi dice il contrario, ma non crediamogli). Da noi tuttavia egli scrive sempre di più per ottenere quella consacrazione finale che consiste nel non essere letto. Infatti, a partire dal momento in cui può fornir materia per un articolo pittoresco sui giornali a grande tiratura, ha tutte le probabilità di esser noto a un numero abbastanza grande di persone che non lo leggeranno mai, perché basterà loro conoscerne il nome e leggere quanto verrà scritto di lui. Ormai sarà conosciuto (e dimenticato) non per quel che è, ma secondo l’immagine che un giornalista frettoloso ne avrà data. Quindi non è più indispensabile scrivere libri per farsi un nome nelle lettere. Basta aver fama d’averne scritto uno di cui abbiano parlato i giornali della sera e sul quale ormai si potrà dormire.



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Da L’enigma in L’estate e altri saggi solari, a cura di Caterina Pastura e Silvio Perrella, Bompiani, Milano 2013.

domenica 2 novembre 2014

François Villon








BALLADE

[Ballade des femmes de Paris]


Quoy qu’on tient belles langagieres
Florentines, Veniciennes,
Assez pour estre messagieres,
Et mesmement les ancïennes;
Mais, soient Lombardes, Rommaines,
Genevoises, a mes perilz,
Pimontoises, Savoisiennes,
Il n’est bon bec que de Paris.

De tre beau parler tiennent chaieres,
Ce dit on, les Neapolitaines,
Et sont tres bonnes caquetieres
Allemandes et Pruciennes;
Soient Grecques, Egipciennes,
De Hongrie ou d’autre pays,
Espaignolles ou Cathelennes,
Il n’est bon bec que de Paris.

Brettes, Suysses, n’y sçavent guieres,
Gasconnes, n’aussi Toulousaines:
De Petit Pont deux harengieres
Les concluront, et les Lorraines,
Engloises et Calaisiennes,
(Ay je beaucoup de lieux compris?)
Picardes de Valenciennes;
Il n’est bon bec que de Paris.

Prince, aux dames Parisiennes
De beau parler donnez le pris;
Quoy qu’on die d’Italiennes,
Il n’est bon bec que de Paris.




BALLATA

[Ballata delle Parigine]


Son regine del linguaggio
Fiorentine, Veneziane,
dell’amor pronte al messaggio,
né da meno son le anziane;
ma Romane sian, Lombarde,
Genovesi (è poi così?),
Piemontesi, Savoiarde,
lingua fina è solo qui.

Del parlar tengono cattedre,
pare, le Napoletane,
le Tedesche son di chiacchere
gran maestre, e le Prussiane;
siano Greche od Egiziane,
Ungheresi (e altre così),
o Spagnole o Catalane,
lingua fina è solo qui.

Non han Brettoni valore,
Tolosane, Guasche, Svizzere:
del Petit Pont due pesciaiole
le farebbero star zitte;
Calesiane e Lorenesi,
Piccarde, Inglesi altresì
(ne ho citati di paesi?);
lingua fina è solo qui.

Prence, il lauro offri alle dame
di Parigi; e sia pur chi
dice brave alle Italiane,
lingua fina è solo qui.



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Da Le Testament (Il Testamento) in Villon, Opere, traduzione di Attilio Carminati e Emma Stojkovic Mazzariol, a cura di Emma Stojkovic Mazzariol, Biblioteca Mondadori, Milano 1981, pp. 160-161.

mercoledì 1 ottobre 2014

Fabio Pusterla




LETTERE DA ZINGONIA



I


Perché non c’è altro non resta
non rimane altro
nell’annullamento
nella foschia nelle brume
non resta che questo pensiero
costante che sibila un nome
una voce riarsa il suo tono
lontano

perché non c’è altro nel mondo
svuotato di senso
soltanto la voce
che chiama

buona
non buona più voce di fiume
Adda imbrigliato aspro
che cozza contro i ponti
i basamenti

periferie tangenziali che anellano
inurbamenti coatti progetti falliti
posteggi d’orrore
l’insonne dormitorio

controviali dove si cammina
tra macerie
con lingue sconosciute si scambia
qualche basico segnale di umanità
qualche sorriso provvisorio
cenni

sempre diretti senza direzione
verso il nome dell’assenza
inoltrandosi  nei parchi
o costeggiando
certe rogge o canali
certe chiuse

verso la parola impossibile
il tramonto di rosso chimico
Dalmine e l’autostrada
vorticosa



II


Cara Lucia ti scrivo da qui
dall’altra riva senza parole
senza grammatica.

Che non so neanche
se puoi ricordarti di me
se sei viva.

Di me non preoccuparti.
Ho attraversato
Zingonia e molti fiumi.

Sopravvivo. Ti penso.
Ti penso sul cammino
e nelle soste brevi,

ti penso quando vedo
dove ci può cacciare fino a dove
ci può cacciare il grugno del potere,

la cosa che ci schiaccia.
Ti penso anche nei fiori, nelle nuvole
e in tutti gli animali che incontro,

quelli più grandi e gli altri, piccolini.
Ti penso nei bambini
e nei vecchi. E ti saluto

da qui, con quel che sai
e anche con altre cose che non sai
e che non sappiamo. Senza

troppe speranze, tuo
per sempre
Renzo Tramaglino.



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Inedito. Ma avviso anche i lettori che di Fabio Pusterla è appena uscito il nuovo libro, Argéman (Marcos y Marcos).