lunedì 1 giugno 2015

Adolf Loos







Che cosa vale di più? Un chilo di pietra o un chilo d’oro? Sembra una domanda ridicola. Soltanto al commerciante però. L’artista risponderà: per me tutti i materiali sono ugualmente preziosi.
   La Venere di Milo sarebbe ugualmente preziosa, sia se fosse pietrame – a Paro le strade vengono pavimentate con il marmo pario – sia se fosse d’oro. La Madonna Sistina non varrebbe un soldo di più se Raffaello avesse aggiunto ai colori qualche libbra di oro. Il commerciante che si dovesse preoccupare di poter fondere una Venere in caso di bisogno o di raschiare via la Madonna Sistina, ovviamente considererà il problema da un altro punto di vista.
   L’artista ha una sola ambizione: dominare il materiale in modo che la sua opera risulti indipendente dal valore del materiale di cui è fatta. I nostri architetti però non hanno questa ambizione. Per loro un metro quadrato di muro fatto in granito ha più valore di uno intonacato.
   Il granito però non ha alcun valore di per sé. Si trova nelle campagne e chiunque può andarselo a prendere. Oppure forma interi monti, montagne intere, e non si deve far altro che estrarlo. Viene usato per pavimentare le strade, per lastricare le città. È la pietra più comune, il materiale più ordinario che conosciamo. Eppure vi sono persone che lo considerano il materiale più pregiato.
   Queste persone dicono materiale e intendono lavoro. Forza di lavoro dell’uomo, mestiere e arte. Poiché il granito richiede molto lavoro per estrarlo dalle montagne, molto lavoro per trasportarlo fino al luogo di destinazione, lavoro per dargli la forma giusta, lavoro per dargli un aspetto piacevole mediante la levigatura e la politura. Di fronte a un muro di granito levigato il nostro cuore tremerà in un brivido di rispetto reverenziale. Di fronte al materiale? No, di fronte all’opera dell’uomo.
   Il granito sarebbe quindi più prezioso dell’intonaco? Non è ancor detto. Perché una parete decorata a stucco dalla mano di Michelangelo farà ombra alla più levigata parete di granito. Non soltanto la quantità, ma anche la qualità del lavoro è determinante per il valore di un oggetto.



***


   Esiste in America un tipo di verdura di largo consumo: la si serve in tavola come da noi i cavoli o i fagioli. Si chiama egg-plant, che significa pianta-uovo. Anche da noi è stata recentemente immessa sul mercato con il nome di melanzana. Le nostre massaie avranno certamente già notato al mercato delle primizie questi frutti blu, oblunghi. Ma la richiesta è scarsa nonostante siano a buon mercato. Perché non si sa come cucinarle. Questo frutto va trattato come la patata. Vi spiego ora il modo migliore di prepararlo.
   Si sbuccia il frutto e lo si taglia, se è lungo nel senso della lunghezza, se è rotondo, per il largo, in fette alte quattro millimetri. Poi lo si sala e lo si impana nella farina, nell’uovo e nel pane grattugiato. Infine lo si fa cuocere piuttosto a lungo nel burro come una cotoletta.
   Ho stabilito un accordo con il ristorante vegetariano che si trova nella Spiegelgasse n. 8 (ammezzato) affinché per otto giorni consecutivi, a partire dal 15 ottobre, vi si preparino per colazione queste melanzane nel modo suddetto. Forse qualche marito le assaggerà e ne parlerà a sua moglie. Oppure ci andranno le signore stesse. O anche il gestore di qualche ristorante.



............................................................................................................................................      Da Parole nel vuoto, traduzione di Sonia Gessner, prefazione di Joseph Rykwert, Adelphi Edizioni, Milano 1992, pp. 73-74, 173.

venerdì 1 maggio 2015

Francesco Scarabicchi








1980



                                   in memoria di Giorgio Caproni



Prologo

Si decida il contabile del tempo
a restituirci gli anni non vissuti,
tutti i sogni, le cose, i persi sguardi,
le idee che vanno, veloci, a scomparire.
Che si decida presto a rimborsare
quanto ognuno ha mancato,
smarrendo dell’amore il caro nome.




L’aiuola
   per Mark Strand


C’è la corona di conchiglie grandi,
una terra mai mossa, quasi legno,
il piccolo oleandro, una panchina
che forse è stata verde,
un gatto rosso addormentato ai bordi,
ossi di pesca e cardi rinsecchiti.

Dei fasti della corte resta niente,
di quell’impero vegetale è il sonno
che tocca la ringhiera arrugginita,
gli scalini, la piccola fontana.
Ogni beltà è sparita come nube
a cui è negato il più lontano cielo.




Roma


Era luce d’ottobre il pomeriggio,
era il sogno sognato che s’avvera,
tu nella stanza che con calma accendi
la mezza sigaretta assaporando
il grigio fumo tra la bocca e gli occhi,
d’osso e cristallo il viso della voce,
nel labirinto di parole esatte,
asciutte come un lino teso al sole.




Epilogo


Dalla porta del tempo passa il mondo,
dai suoi sentieri ignoti, dalle strette
vie degli istanti che non torneranno.
Dov’è che vanno, allora? A chi votati?
E quanto d’ogni umano si cancella?



mercoledì 1 aprile 2015

Pier Paolo Pasolini







POESIA NELLA SCUOLA


La poesia nella scuola ha una funzione ben chiara e precisa, anche se generalmente la si giudica con molta approssimazione attribuendole dati meramente culturali o sentimentali. A noi sembra che almeno nelle medie inferiori (ma anche, così come stanno le cose, nei Licei) lo studio della poesia non viva che ai margini della cultura, documento ante litteram, strumento senza applicazione, testimonianza che non trova riscontro nei fatti, se fornito senza i suoi presupposti estetici, senza le sue impostazioni filologiche e prospettato molto vagamente nello spazio storico e ambientale. Una poesia letta di per sé (come nelle medie inferiori) o approssimativamente ambientata (come nelle superiori), acquista valori diversi, si isola in un tempo non oggettivamente suo, sì che, pur arricchendosi di inaspettate suggestioni e di suggerimenti spesso perentorii, non rientra in una forma di cultura, nemmeno schematica, anzi è nella maggior parte dei casi la cultura falsa con cui si esce dai Licei e di cui vive il borghese. Ugualmente inattendibile è l’opinione di chi dà allo studio della poesia una qualificazione meramente pedagogica, quasicché la lettura di un testo poetico avesse un valore di esempio, proprio nel senso plutarchiano della parola; la gravità di questo equivoco è documentata dalla scelta dei testi «edificanti», da L’Aquilone del Pascoli, giù fino alle latebre del più basso romanticismo. Certo, per l’imparzialità, non potremmo escludere del tutto dalla lettura della poesia, come funzione educatrice, anche un aspetto culturale (ma in tal caso sono da sfruttarsi e da chiarire quegli elementi culturali, in specie linguistici, che lievitano allo stato di pura suggestione da una lettura isolata) e un aspetto sentimentale, se all’attributo si dà un significato rigido di «educazione sentimentale», in modo che la purezza o la generosità ecc. non risultino dal contenuto di una poesia letta illecitamente a un suo stadio narrativo, aneddotico (a proposito, quando il crocianesimo entrerà nelle scuole? Tutti i giovani insegnanti, costituzionalmente e inconsciamente crociani, anche se male preparati, davanti a una scolaresca, ridivengono scolari riprendendo la tradizione dei loro vecchi professori degni del Cuore); al contrario la purezza, la generosità ecc., ossia l’eco di un’umanità volta a interessi non pratici, deve essere suggerita agli scolari proprio attraverso una interpretazione formale, cioè girando davanti ai loro occhi, quasi con un rudimentale rallentatore, l’operazione poetica, che è sempre una metafora, un passaggio da un ordine sentimentale a un ordine verbale. È chiaro comunque che se l’insegnante non sa quale sia la funzione della poesia nella scuola, accettandone un’interpretazione abitudinaria, farà, leggendola e spiegandola alla lettera, non solo una fatica inutile ma dannosa, rendendo ingiustificata agli occhi dei suoi «barbari» (proprio nel senso greco di alloglotti) scolari l’operazione poetica, questo sommo prodotto della civiltà. Se dunque da questo esame negativo risultano già almeno in parte i valori da scoprire nella lettura di un testo di poesia nella scuola, che sono valori soprattutto esemplativi (un testo diviene una monade in cui si concretano e trovano una forte vita fantastica vasti e originari motivi culturali e psicologici), è chiaro che si vuol dare intanto allo studio della poesia un carattere critico, almeno in nuce. In termini pedagogici, questo studio è strettamente complementare a quello della grammatica e della sintassi, a parte la maggiore altezza dell’esercizio. Ecco allora chiarirsi la funzione della poesia nella scuola come coscienza linguistica, come iniziazione all’inventio, dopo il chiarimento grammaticale, sintattico e fraseologico dell’istituzione linguistica, dell’inventum. Ma se si tien conto che a ogni approfondimento sentimentale, a ogni scoperta interiore corrisponde un approfondimento e una scoperta linguistica, e viceversa, si vedrà quale ulteriore importanza può avere una poesia il cui funzionamento sia così inteso, quando giunga a mettere in movimento il meccanismo mentale che conduce dalla introspezione alla espressione e viceversa. Ecco un preciso compito pedagogico, addirittura profilattico, quando il risultato sia una presa di coscienza e un superamento dell’istinto e dell’abitudine, che conducono il ragazzo ad accorgersi di sé e del suo ambiente.
   Ma quali saranno i testi poetici da leggersi in una scuola media? La risposta è semplice se si pensa che devono essere soprattutto insegnamento di lingua, esempi di metafora, di trascrizione e di invenzione; ecco dunque che quei testi saranno da scegliersi tra quelli dei poeti viventi, che usano una lingua viva non solo come lessico ma proprio come concezione dell’uso espressivo e come scelta dei sentimenti da esprimersi.


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Da Poesia nella scuola, in «Il Mattino del Popolo», 4 luglio 1948. Poi in Pier Paolo Pasolini, Un paese di temporali e di primule, a cura di Nico Naldini, Guanda, Parma 1993, pp. 280-282; ristampato nel 2001.

domenica 1 marzo 2015

Ai lettori







Ultimamente ho avuto poco tempo da dedicare alla lettura, e quel poco che comunque sono riuscito a leggere non mi è sembrato particolarmente significativo.
Perciò ho deciso di utilizzare la “finestra” di questo mese (ossia la numero 236, mentre la prima, introduttiva, era datata 17 agosto 2011) non come al solito per proporre autori e opere ma per segnalare che “Finestre” ha superato le ventimila visite.
Un risultato che trovo davvero gratificante, anche considerando che diversamente da molti altri blog e riviste similari qui non si dà spazio né a commenti né a pubblicità.
Dunque i ringraziamenti più sentiti a tutti i lettori per l’attenzione sinora accordata a “Finestre”.


g. z.

domenica 1 febbraio 2015

Francesco Bonami





Robert Ryman, Untitled, 1961 (Peter Blum Gallery, New York)


  Il pittore americano Robert Ryman ha trovato un metodo per usare proprio il niente nelle sue opere. Dipinge le sue tele interamente di bianco, ripetendo continuamente questo rito dell’artista desolato davanti al nulla che precede ogni creazione. A voi sarebbe mai venuto in mente?
   Il problema di questa arte è che si basa sull’idea, non sulla tecnica.
   Se nell’antichità la tecnica era fondamentale per sviluppare un’idea, oggi non lo è più. Se nelle botteghe dei grandi pittori gli allievi potevano seguire o ispirarsi allo stile del maestro, nell’arte contemporanea questo non è più possibile.
   Non possono esistere artisti che lavorano nello stile di Robert Ryman perché se ci fossero non farebbero altro che copie di Ryman. Cosa imparano da lui allora e cosa possono fare i suoi assistenti e allievi? L’insegnamento di Ryman è più profondo. L’artista in questo caso dice all’allievo: «Io non ho idee oltre la tela bianca e tu?». L’allievo deve quindi affrontare un problema che non riguarda solo Ryman ma tutti noi, vale a dire il dramma del vuoto e del modo in cui può essere colmato, nell’arte ma anche nella nostra vita quotidiana.
   Se la noia non era mai stata un soggetto dell’arte visiva ora lo può essere. Possiamo dipingere la noia, possiamo raccontarla attraverso immagini o con l’assenza d’immagini? Forse.
   Ma perché Ryman è un bravo e importante artista? Forse perché nello spazio convenzionale della tela, e non con un libro, riesce a trasmetterci qualcosa di profondamente vero?
   Il vuoto e la noia sono parte della nostra vita e forse è meglio degnarli di attenzione piuttosto che far finta che non esistano.
   Un quadro tutto bianco, che sciocchezza! Certo, apparentemente è una sciocchezza, nessuno può negare che tutti sono capaci di realizzare un quadro bianco, ma il punto è che a nessuno sarebbe mai venuto in mente di farlo. Perché? Perché la maggior parte di noi tende a rimuovere dalla propria vita l’idea che il vuoto esista, che spesso quando siamo seduti in poltrona nella nostra testa non c’è nulla, solo uno spazio bianco.
   Noi occidentali siamo spaventati dal nulla, ma in altre culture esso attiene a una dimensione importantissima.
   Le nostre case sono piene di cose, e quando sono vuote ci sembrano squallide.
   Per un gran numero di persone un quadro di Ryman, rispetto a un’opera di Renato Guttuso, sembra del tutto insignificante, come il riso in bianco a confronto di una pasta all’amatriciana. Ma come milioni di persone nel mondo fanno del riso in bianco la base di tutta la loro cucina, allo stesso modo il bianco della tela di Ryman può essere considerato una base, sulla quale è consentito immaginare qualsiasi cosa.
   In un quadro di Guttuso non si può aggiungere o modificare nulla, e ciò non toglie che a volte saremmo tentati di buttarlo direttamente nella spazzatura.
   Su un quadro di Ryman la nostra fantasia può proiettare tutto, e per questo la sua opera è importante, perché consente allo spettatore di sentirsi di colpo libero di immaginare ciò che vuole. E compito dell’arte è proprio quello di farci sentire liberi.



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Da Lo potevo fare anch’io, Mondadori, Milano 2014, pp. 16-17. 

giovedì 1 gennaio 2015

Marco Ferri




*


Oggi piove. Il profumo
di terra bagnata risveglia
una felicità lontana,
cavernosa e umida.

Anche il silenzio ha una lunga
lunghissima familiarità
ma non è una compagnia piacevole.

C’è un rumore di pioggia
sui muri e sulle soglie,
e un silenzio che inquieta
dall’età della pietra.




Continua l’insonnia


Dove il rosso e il violetto
scompaiono, quelle non sono zone
che fanno per noi. La misura
di tutte le cose non è la specie
che ha imparato a conoscerle e raccontarle.
Dalle finestre guardo la pioggia,
quel verde acido e notturno crivellato
di gocce nelle pozzanghere e penso che sarà così
quando io non ci sarò più e quando non ci sarà
più nessuno. Forse ci sguazzerà
qualche mollusco o qualche invertebrato
ancora incerto nella forma, ma dovrà fare in fretta,
non avrà il tempo che abbiamo avuto noi.



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 Da Inverno nell’Antropocene.

lunedì 1 dicembre 2014

Albert Camus







   Se si vuol credere a un mio amico, un uomo ha sempre due caratteri, il suo e quello che gli attribuisce la moglie. Sostituiamo moglie con società e capiremo come una formula che uno scrittore collega a tutto il contesto di sensibilità possa essere isolata mediante il commento che se ne dà e presentata al suo autore ogni volta che egli desidera parlare d’altro. La parola è come l’atto: «Avete dato alla luce questo bambino?» «Sì.» «Quindi è vostro figlio.» «Non è così semplice, non è così semplice!» Così, una brutta notte, Nerval si è impiccato due volte, prima per sé, perché era infelice, e poi per la sua leggenda, che aiuta qualcuno a vivere. Nessuno può parlare della vera infelicità, né di certe felicità, e non mi ci proverò io qui. Ma la leggenda si può descrivere e si può immaginare, almeno per un momento, di averla dissipata.
   Uno scrittore scrive in gran parte per esser letto (ammiriamo chi dice il contrario, ma non crediamogli). Da noi tuttavia egli scrive sempre di più per ottenere quella consacrazione finale che consiste nel non essere letto. Infatti, a partire dal momento in cui può fornir materia per un articolo pittoresco sui giornali a grande tiratura, ha tutte le probabilità di esser noto a un numero abbastanza grande di persone che non lo leggeranno mai, perché basterà loro conoscerne il nome e leggere quanto verrà scritto di lui. Ormai sarà conosciuto (e dimenticato) non per quel che è, ma secondo l’immagine che un giornalista frettoloso ne avrà data. Quindi non è più indispensabile scrivere libri per farsi un nome nelle lettere. Basta aver fama d’averne scritto uno di cui abbiano parlato i giornali della sera e sul quale ormai si potrà dormire.



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Da L’enigma in L’estate e altri saggi solari, a cura di Caterina Pastura e Silvio Perrella, Bompiani, Milano 2013.