lunedì 1 febbraio 2016

Carlo Emilio Gadda







   I fatti nuovi, ch’erano per giocare a contrasto d’ogni tentazione revisoria del dispositivo-base (e cioè dell’idea di lasciar tutto, metà per uno, alla coppia Giuseppe-Adelaide, ormai congiunti dal doppio vincolo del matrimonio a fil doppio: civile, 1910, e per di più religioso) i fatti nuovi erano maturati e caduti nella realtà della cognizione comune, quella cognizione ovvero consapevolezza che certi filosofi chiamano appunto «il reale» per meglio distinguerlo dallo strascico delle loro private farneticazioni, quasi concedendogli un diritto di pallida cittadinanza «dans le domaine de l’esprit»: eran caduti, caduti, spiccandosi, dure pere, dall’albero di natale d’una precedente sospensiva, denominata «il possibile». Del pari la goccia d’acqua s’inturgidisce iridandosi, e a poco a poco si sfericizza della propria crescente gravezza sul filo della gronda: e viene alfine l’attimo, tac, nel quale tutt’a un tratto se ne spiccica: e per il breve tempo del suo precipitare si identifica in sé, acquista il nome di goccia d’acqua, perfino Berkeley la chiama goccia d’acqua: entra a far parte, per due secondi, sino ad approdar sul collo di chi a marciapiede ne raggela, d’una vasta certezza: la certezza del «reale» storico orchestrato da Dio, storicizzato da Hegel, enfatizzato da Carlyle. Lei, la goccia, non appena captata dalla dialettica della storia, o dalla vertebra cervicale del transeunte, d’un subito evapora: come la Sostanza del marchese di Château Flambé nel crogiolo dialettico del Novantadue.
   Con la certa significazione d’un vaticinio codesti fatti già accaduti e ora annotati nel registro della comune cognizione misero anzitutto in luce, sotto lo sguardo bonificatore di Beniamino, uno nuovo «possibile»: cioè una nuova possibilità di salvaguardare il malloppo, un nuovo mantello salvaguardante da gettare sulle spalle del malloppo, allo scopo, sempre, di garantirne l’unità futura ai futuri. I futuri, ordinati nel tempo in una regolare successione strofica ovvero discendenza biologica, erano ormai indispensabili al sistema conoscitivo di Beniamino: a quel sistema, cioè, che gli permetteva di pensare un futuro della Sostanza, di regalare un futuro ai milioni: dacché senza i futuri bipedi non erano concepibili nemmeno i futuri milioni. Senza concepire i pali non si può concepire la vigna. Se il concetto di un Io biologico ereditante gli fosse venuto meno, anche il concetto di Sostanza ereditabile ed ereditata si sarebbe rarefatto e disciolto, come nebbia al primo sole, nell’alpe. Con analogo e per altro antinòmico suo crepacuore il colono travagliando lamenta, o piange, la prole mancata, o caduta invano alla Moscova: poiché al di là delle arature e delle nebbie non intravvede chi possa arare la sua terra, in un disperato domani.
   Venutogli meno, a Beniamino, dopo la categorica esclusiva del notaro commendator Barlingozzi, ogni gusto di inserire nel «reale» l’ològrafa dicotomia che aveva ritenuta possibile, una nuova «soluzione» gli si presentò, dapprima sotto le parvenze d’una incerta fantasia. Gli apparve durante un sogno, come Amore strappacuore al poeta; e di nebulosa forma od immagine si raffermò a poco a poco in idea, idea chiara: non più d’una disgiunzione male ipotizzata, ma di una congiunzione matrimoniale: di un secondo rimuginabile accoppiamento preservante l’unità della Cosa familiare, quella «res», per l’appunto, che dà nome al «reale». (Ma i reali carabinieri derivarono il loro appellativo da rex, regere.)


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In Accoppiamenti giudiziosi, Adelphi, Milano 2015, pp. 344-346, dal racconto eponimo del 1958.