Bal au Moulin de la Galette, 1876, Musée d’Orsay,
Parigi.
Tentai di portare la conversazione sul
terreno dell’arte. Io stesso avrei visitato l’Italia molto tempo dopo, ma la
conoscevo un po’ attraverso le riproduzioni. Mio padre rimaneva sordo alle mie
insinuazioni: «La pittura non si racconta, si guarda. Non servirebbe a nulla
dirti che le cortigiane di Tiziano fanno venir voglia di accarezzarle. Un
giorno, andrai tu stesso a vedere i quadri di Tiziano e, se non ti faranno
nessun effetto, vuol dire che di pittura non ne capisci nulla. E non sono certo
io che posso farci qualcosa!». Poi, in apparente contraddizione con
l’affermazione precedente, dichiarava: «Con la pittura ci si vive, non la si
guarda. Hai un piccolo quadro in casa tua; lo guardi solo di rado e soprattutto
senza mai analizzarlo. Eppure diventa una parte della tua vita, agisce come un
talismano. I musei servono in mancanza di meglio. Come puoi entusiasmarti
davanti a un quadro, se sei circondato da una ventina di visitatori che
sussurrano sciocchezze? Nei musei bisogna andarci molto presto al mattino, per
avere qualche possibilità di goderseli in pace!».
Il suo carattere lo spingeva raramente a
formulare un giudizio; ma quando questo avveniva, lo formulava in termini più
che chiari. «Leonardo da Vinci mi annoia. Avrebbe dovuto limitarsi alle sue
macchine volanti. I suoi apostoli e il suo Cristo sono sentimentali. Sono
assolutamente certo che quei bravi pescatori ebrei sapevano rischiare la pelle
per la loro fede senza sentirsi obbligati a fare quegli occhi da pesce
fritto!». A Franz Jourdain, l’architetto della Samaritaine, che gli chiedeva se preferisse Rembrandt o Rubens,
rispose invece: «Non assegno premi».
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Jean
Renoir, Renoir, mio padre (1962), Adelphi,
Milano 2015, pp. 215-216.