martedì 1 settembre 2015

Herman Melville







97. La lampada

   Se foste scesi dalla raffineria del Pequod al castello di prua dove dormivano gli uomini smontati dalla guardia, per un singolo momento avreste quasi creduto di trovarvi in qualche rilucente sacrario di re e di consiglieri canonizzati. Là i marinai giacevano nelle loro triangolari cripte di quercia, ognuno immerso in un silenzio di pietra, mentre la luce di una ventina di lampade colpiva i suoi occhi chiusi.
   Sui mercantili, l’olio per i marinai è più scarso del latte di regina. Vestirsi al buio, mangiare al buio e raggiungere, inciampando nell’oscurità, il proprio giaciglio: questa è l’abitudine. Ma il baleniere, che va alla ricerca dell’alimento della luce, vive perciò nella luce. Fa della sua cuccetta una lampada d’Aladino e ci si corica, così che anche nella notte più scura il nero scafo della nave ospita sempre una luminaria.
   Guardate con che libertà assoluta il baleniere porta il suo mucchio di lampade – benché spesso non siano che vecchie bottiglie e fiale – al refrigeratore di rame della raffineria, per riempirle come boccali di birra a un barile. Brucia anche il più puro degli olii, al suo stato grezzo, e perciò incorrotto; un fluido sconosciuto ai congegni solari, lunari o astrali della terraferma. È un olio dolce come il burro della prima erba d’aprile. Lui ne va a caccia, così da poter essere certo della sua freschezza e della sua genuinità, proprio come il viaggiatore delle praterie va per suo conto a caccia della selvaggina di cui si ciba.



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Da Moby Dick, cura e traduzione di Pietro Meneghelli, Newton Compton, Roma 2004, p. 337.