sabato 1 agosto 2015

Gottfried Benn







Chopin


Conversatore avaro,
le opinioni non erano il suo forte,
le opinioni non vanno mai al sodo,
s’agitava quando Delacroix
illustrava teorie, quando a lui non avrebbe
saputo spiegare i suoi Notturni.

Debole amante;
un’ombra a Nohant
dove i figli di George Sand
rifiutavano i suoi
consigli pedagogici.

Tisico in quella forma,
con emottísi e cicatrizzazioni,
che tira in lungo;
morte tranquilla
a differenza d’una
con spasmi e parossismi
o per salva di colpi:
spinsero il piano (Erard) vicino alla porta
e Delphine Potocka
gli cantò nell’ora estrema
il Lied della violetta.

Andò in Inghilterra con tre pianoforti:
Pleyel, Erard, Broadwood,
la sera suonò per 20 ghinee,
un quarto d’ora,
dai Rothschild, dai Wellington, a Strafford House
e davanti a innumerevoli Ordini della Giarrettiera;
incupito di stanchezza e di morte
ritornò a casa
in Square d’Orléans.

Poi brucia i suoi schizzi,
i suoi manoscritti,
che non ci fossero resti, frammenti, annotazioni,
questi indizi rivelatori –
alla fine disse:
«Le mie opere sono compiute nella misura di ciò
che mi era dato raggiungere».

Ogni dito doveva suonare
secondo la propria conformazione,
il più debole è il quarto
(solo un fratello siamese del medio).
Quando attaccava, posavano sul
mi, fa diesis, sol diesis, si, do.

Chi di lui mai sentì
certi preludi,
sia in ville che in alte
valli sui monti oppure
da porte spalancate su terrazze
per esempio in un sanatorio,
difficilmente potrà dimenticarlo.

Mai composto un’opera,
mai sinfonia,
solo queste tragiche progressioni
per convinzione d’artista virtuoso
e con una piccola mano.



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Da Poesie Statiche, introduzione e traduzione di Giuliano Baioni, Einaudi, Torino 1982, pp. 8-11.