Messina, anni Settanta
Senti di potere scalare una città di mare per averla tua. Per
tenerla a bada e non farti mettere in croce dalla sua miseria. Ti aggrappi ai
suoi tornanti stretti e accidentati, e finisci per trovare un angolo di visuale
che ti ripaga dell’amarezza, della fatica, dell’insensata accidia che prende e
che trafuga quanto ti preme e vuol vedere luce.
Da quassù le navi non sono un avanti e indietro tra paradiso
e inferno, ma il punto decorativo di un’ala irraggiungibile del cuore che, se suggerisce
la fuga, lo fa con tutti i motivi dell’azzurro-cielo, del nero-notte.
Sai di cosa parlo, vero?
A metà strada di quelli che non sono ancora i nostri colli e
che non è più periferia – diciamo borgata? –, si compendia un nòcciolo
d’adolescenza. Diciamo: un’adolescenza che negli anni settanta ha il suo bivio
negli incroci dai semafori scassati e che dalla radio rimesta le cronache degli
scontri di piazza a Roma, Milano, Bologna. E lì medita il suo male, lo ciuccia
a piccoli sorsi e pensa che domani si prepara un carico, una quota piccola di
fuga, quando le lampionate sui viali si accendono controvoglia e tu ti
riconduci a casa. La dolce màtria casa che, viene da pensare, è il covo
sanguinario di tutte le avventure di rapina. Uno si busca un’influenza per
imparare a nuotare, un altro no: ama il rifugio umido dei ladroni e si consola
così, tra le pareti amiche.
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Inedito.