domenica 16 novembre 2025

Cesare Zavattini





Introduzione

 

Tutti conoscono Cesare Zavattini, sceneggiatore di grandi capolavori del neorealismo come: Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948), Miracolo a Milano (1952), ma anche fumettista, giornalista satirico, narratore, pittore, poeta, anche poeta dialettale con Stricarm’ in d’na parola (Stringermi in una parola). Una raccolta di 50 poesie nel dialetto di Luzzara, pubblicata nel 1973, che Pasolini in un’entusiastica recensione definì come un “libro bello in assoluto [...] dove tutto è rimesso in gioco, tutto, per dir meglio, ritorna finalmente in gioco”. Un libro che non passò inosservato, ma che per la difficoltà di lettura, credo, non venne recepito come meritava (i più dovettero accontentarsi di leggerlo in italiano) e fu ben presto dimenticato. Zavattini, che, come confessa in una lettera all’amico editore Valentino Bompiani, nasce “con il bisogno fisico di essere sincero”, qui trova finalmente nel dialetto lo strumento ideale per esprimere “la verità”. Verità che è lì a portata di mano, nelle cose di tutti i giorni, nelle persone che ci stanno vicine, nella natura... ma che fatichiamo a cogliere, perché ci è nascosta dal mondo fittizio che noi stessi abbiamo creato e dai rapporti umani distorti, a cui ci costringe la società moderna. Tutto ciò che è cultura (la nostra cultura) è uno schermo che ci separa dalla “verità”. La lingua, attraverso cui la cultura si manifesta (nella televisione, nella pubblicità, nella politica, nel cinema, nella stampa, nelle lettere... che è la nostra lingua) è qualcosa di artificiale, finto. Una lingua che ci mette in bocca parole che non sono nostre e che fa da filtro, qualora volessimo esprimere quello che veramente sentiamo. Il dialetto nella sua aderenza alla realtà, alla natura, è ancora portatore di verità e più “veri” di noi sono ancora gli uomini che ancora lo parlano e restano immersi nel suo mondo (il mondo delle cose che accadono in dialetto, dirà Baldini). Quelli che “umiliati e offesi”, vivono ai margini della nostra presunta civiltà (che, contro ogni logica, si regge sul consumo), coloro che non si accorgono dei cambiamenti, e che non traggono nessun vantaggio dal nuovo boom economico, anzi ne vengono travolti (quando scrive siamo alla fine degli anni ’60). Stricarm’ in d’na parola è scritto nel 1973, Zavattini, a Roma, nell’ambiente del cinema, aveva sicuramente già conosciuto Tonino Guerra, che nel 1972, era ritornato al dialetto con I Bu, Al Vousi di Pedretti è del 1975, nel 1976 Baldini pubblica È solitèri. Dieci anni prima il Gruppo ’63, aveva posto il problema dell’inadeguatezza della lingua. Lingua che non è più nostra ma quella che (attraverso i mezzi di comunicazione di massa) ci viene imposta dalla nuova società, la società neocapitalista. Negli anni ’70 la questione è ancora aperta ed incomincia a farsi strada l’idea del possibile uso del dialetto come “lingua di verità” e l’emiliano Zavattini, al pari dei nostri più famosi poeti della Romagna, la fa propria. Fra noi e le poesie di Stricarm’ in d’na parola, però, si interpone il muro della lingua. A noi che distiamo circa duecento chilometri da Luzzara, il luzzarese è abbastanza ostico, ci suona come una mescolanza poco comprensibile di emiliano, veneto e lombardo. Ho quindi pensato di tradurre Zavattini in Cesenate (è il dialetto che conosco, poi sarà facile ad ognuno riportarlo alla propria parlata). Tradotte, queste poesie sembrano non perdere troppo (dopo tutto siamo vicini, la cultura è la stessa e il più delle volte anche i suoni) e noi ci si guadagna il gusto di una comprensione immediata. Solo 49 delle 50 poesie che compongono Stricarm’, sono in dialetto, l’ultima, Congedo, è in italiano. È un congedo ironico e divertente, come è nel suo stile, ma dove, ancora una volta, traspare la preoccupazione dell’autore per una società dove la spinta al consumo viene a sostituire la ricerca della felicità. Illusione che nasconde il peggioramento della qualità della vita di ognuno. Chi c’è dietro questa macchinazione? Sicuro qualcuno di molto potente. Svelare l’inganno, dire la verità, soprattutto attraverso una lingua capace di farsi ascoltare, potrebbe avere conseguenze pericolosissime.

 

 

 

Mei a stè zet

 

Vita vita, ‘sèl ch’l a i è?

A n vreb miga dè dan a chi du che là

Ch’i è dria a ciavè a le tramèza a l erba.

 

 

Meglio star zitti // Vita vita, che cos’è? / Non vorrai mica dar fastidio a quei due là / che sono intenti a chiavare in mezzo all’erba.

 

 

Dio

 

Dio u i è.

S u i è la figa u i è.

Sol lo e’ puteva invantè

‘na ròba acsé

ch’la pis a tot a tot

in ogni luogo,

a i pansem nènca s a n gn’i pansem gamba,

apena ch’ta la toch a cambiem faza.

Fat mumènt! Longh o curt a n e’ savem a gnenca.

La fa nènca i mirècul,

a un mot

u i è arturnè la vosa

par ciamèla.

Ah s a putes spieghèm mo

l è fadiga

cmé a scor de’ nas e de’ murì.

 

 

Dio // Dio c’è. / Se c’è la figa c’è. / Solo lui poteva inventare / una cosa così / che piace a tutti a tutti / in ogni luogo, / ci pensiamo anche quando non ci pensiamo per niente, / appena la tocchi cambiamo faccia. / Che momento! Lungo o corto non lo sappiamo neanche. / Fa anche i miracoli, / a un muto / gli è tornata la voce, / per chiamarla. / Ah se potessi spiegarmi ma / è fatica / come parlare del nascere e del morire.

 

 

La basa

 

Ò vest un funerèli acsé puret

ch’u n gn’era gnenca e’ mort

dentra a la casa.

La zenta la rugiva.

A rugiva ènca mé

senza savéi e parché

lé tra la nebia.

 

 

La bassa // Ho visto un funerale così povero / che non c’era neanche il morto / dentro la cassa. / La gente piangeva. / Piangevo anch’io / senza sapere il perché / lì tra la nebbia.

 

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Cesare Zavattini, Stricarm’ in d’na parola, Milano, Scheiwiller 1973; Scrichim in t’na parola, introduzione e traduzioni dal dialetto emiliano di Luzzara nel dialetto romagnolo di Cesena e in italiano di Maurizio Balestra, tosca Edizioni, Cesena 2019.

Cesare Zavattini nasce a Luzzara nel 1902 e muore a Roma nel 1989. È sepolto nel cimitero del suo paese natale.