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Milano, aprile 2014 |
Ricordi di un’amicizia
Era il 2001 quando Giampiero Neri, al quale avevo inviato la mia raccolta di poesie I rimanenti, rispose a giro di Poste dicendomi che aprendo il libro a una certa pagina aveva “subito sentito che eravamo amici”. E cosi è stato.
Un’amicizia sincera, aperta all’ascolto reciproco, vissuta, bontà sua, alla pari, nonostante le differenze d’età e di cultura (nel 2001 Neri aveva 74 anni ed era già un poeta affermato, mentre io solo 42, e dovevo ancora farne di strada). Un’amicizia presto diventata un sodalizio (in seguito abbiamo a più riprese scritto pubblicamente l’uno dell’altro) che continua, come sta a testimoniare questo articolo.
Ovviamente, lui a Milano e io a Cesena, erano più le telefonate che gli incontri. A Milano erano incontri frettolosi, giusti appena per pranzare insieme in uno dei ristoranti di pesce nei dintorni della sua casa di Piazzale Libia. A Erba, dove trascorreva i mesi estivi nella casa di villeggiatura, avevo invece la possibilità di fermarmi per due tre giorni, pernottavo nella vicina Canzo, e di solito mi portava a mangiare da Negri, all’aperto, in riva al lago di Pusiano.
Da lì si poteva scorgere l’abitato di Bosisio-Parini e, tra una chiacchierata e l’altra, a Giampiero piaceva rammentarmi qualche verso esemplare del Parini. Usciti dal ristorante, una volta ci spingemmo fino a Longone al Segrino, a vedere ciò che rimaneva della fastosa villa della famiglia Gadda, l’odiata villa de La cognizione del dolore, l’opera che Neri più apprezzava del suo sventurato e inconsolabile conterraneo.
L’ultima volta che ho visto Giampiero è stato proprio a Erba, davanti a casa sua, poco prima di risalire sulla mia auto e far ritorno a Cesena. Ricordo anche il giorno preciso, perché di lì a poco scrissi le due righe promemoria che seguono.
Era il 2 luglio 2019. Ci salutammo commentando le bellezze del luogo e la gente, non proprio ospitale. «Vai adagio», furono le sue ultime parole, come una carezza.
A tutti i consigli che gli chiedevo, soprattutto riguardo alle poesie che andavo scrivendo, egli quasi mai rispondeva fornendomi suggerimenti tecnici, sostituzioni, modifiche, ma piuttosto attraverso inviti a ripensare più attentamente a quanto avevo scritto, una frase, una parola, mirati a farmi riflettere. Inviti a fin di bene, che ho sempre accettato di buon grado, e senza mai pentirmene. L’unico che non ho ascoltato fu proprio in quei giorni d’estate del 2019 quando, lasciandoci, sapevamo entrambi che forse non ci saremmo più rivisti, perché, anche se Giampiero disapprovava, avevo deciso di trasferirmi alle Canarie, dove tuttora vivo.
Un’altra volta, ricordo, quando gli dissi che grazie a lui stavo imparando a scrivere molto meglio, mi stupì confidandomi che era lui che aveva appreso molte cose da me, più lui da me che io da lui, incredibile ma vero! Ma Giampiero era questo, un maestro atipico, umile, generoso, altruista, con un occhio preferenziale verso i più deboli.
Tutte cose che mi sono tornate in mente leggendo Utopie, l’ultimo libro, uscito nel marzo del 2023, un mese dopo la morte, ma di cui Neri riuscì a rivedere le bozze, come sappiamo dal suo amico e biografo Alessandro Rivali, direttore delle Edizioni Ares, che lo ha pubblicato. Ci tenevo molto a leggerlo, ma siccome alle Canarie di libri italiani non se ne vedono, me lo sono fatto ordinare e spedire dall’Italia.
L’ho letto e riletto in poche ore, e si tratta di “un vero testamento spirituale”, come giustamente si dice nel risvolto di copertina. Nel contempo è anche, posso aggiungere, il tentativo di meglio definire, e quindi di inserire in extremis alcuni tasselli ancora ritenuti mancanti a quell’unico libro di cui Neri si considerava autore, come dichiarò in diverse occasioni, e a cui ha lavorato finché ha potuto, appunto.
A “Finestre”, come il lettore potrà notare, Giampiero collaborò più volte, nel 2011 anche con una Piccola intervista, in cui affermava:
Alla verità si arriva cercando in se stessi. Non ci sono maestri. Ognuno di noi è responsabile di quello che pensa e dice. Dobbiamo dunque abituarci a criticare le nostre idee, ossia sottoporle al vaglio di una nostra rielaborazione critica. Come usiamo fare con i nostri “versi”, che possiamo sottoporre anche al giudizio di altri, ma il collaudo definitivo rimane pur sempre il nostro.
Chiudo proponendo il testo che si trova a p. 99 di Utopie. Ed ecco che ritorna la verità, come un mantra induista o, se si preferisce, a riconferma del biblico “niente di nuovo sotto il sole”.
Deve solo rispondere al bisogno di verità.